A quelli di Fanpage gli si vuole bene. Non ci fosse stata Lodovica Rogati e lo scoop più pazzo del mondo, la campagna elettorale appena conclusa sarebbe stata archiviata come la più noiosa della storia repubblicana. Si vede che da quelle parti ci hanno preso gusto, perché, a urne ancora calde, è uscito un altro articoletto di quelli da ricordare, secondo cui il fatto che Giorgia Meloni sarà, verosimilmente, la prima donna italiana a lavorare a tempo determinato come Presidente del Consiglio dei Ministri sia, addirittura,“una pessima notizia per le donne italiane”. Oh bella: credevamo che un paio di brand-new tube di Falloppio a Palazzo Chigi fosse qualcosa di importante a prescindere, una novità epocale che, per esempio, ci posiziona davanti a quei soloni degli americani, tutti chiacchiere e pronomi correggiuti quando si parla di inclusività, ma mai una volta che mettessero una donna nella stanza ovale dei bottoni. E invece, nisba: la testata giornalistica che grazie a Lodovica Rogati ha permesso al dadaismo di compiere un inaspettato comeback nel ventunesimo secolo, ci infligge un sermone per insegnarci che non tutte le vagine sono uguali, e per quella della Meloni non c’è proprio niente da festeggiare.

Eravamo abituati a quelli che davano patenti di agibilità politica: scopriamo l’esistenza di chi si arroga il diritto di dare patenti alle vagine, stabilendo quali siano degne di rappresentare il cromosoma a doppia X e quali costituiscano “una pessima notizia”. Pensavamo che il significato delle quote rosa, e in generale di tutti i discorsi con al centro il gender sentiti in questi anni, stesse proprio all’opposto: che la rappresentanza di genere fosse un valore in quanto tale, a prescindere dal caso particolare. Che la rottura di un muro, di un pregiudizio - e a maggior ragione in seno alla destra storicamente machista - fosse a priori una buona notizia perlomeno a livello simbolico. E invece scopriamo che ci sono vagine degne e vagine indegne, sulla base – ovviamente - dell’aderenza della vagina in questione ai dettami emessi dagli Ayatollah della religione più potente in circolazione oggi nel mondo, la cultura woke americana, degenerazione tossica della cultura liberal, esportata in tutto il mondo grazie ai social e a Google translator (non senza difficoltà: leggere parole tipo “omolesbibitransfobia” e rimanere seri è dura).
Si potrebbe far notare che milioni di italiche vagine, incluse tante vagine di sinistra, considerano la sua elezione un evento storico, a prescindere che si riconoscano o meno nella proposta politica di Giorgia Meloni: ma conosciamo l’argomento usato in questi casi, secondo cui si tratta di vagine che sbagliano, vagine ignoranti, vagine superficiali, vagine distratte, vagine schiave del patriarcato talmente sottomesse da non accorgersene nemmeno, argomento che non finirà mai di stupire per il paradosso che manifesta nella pervicacia con cui impone alle vagine un pensiero unico, come solo nelle teocrazie patriarcali più rigorose. Altro che parità di genere: che sia la Presidenza del Consiglio o un consiglio di amministrazione o un semplice concorso pubblico, la quota rosa è rosa solo se occupata da vagina buona, ovvero da vagina che la pensa come loro; altrimenti è “pessima notizia”, e vai di fatwa per mettere in guardia dalla vagina cattiva. Capiamo la praticità dell’operazione: piuttosto che mettersi a ragionare su come sia stato possibile, dopo un decennio passato a parlare di questione femminile, che la prima donna premier arriva dalla destra celodurista e bungabunghista e non dalla sinistra democratica e inclusiva sarebbe materia imbarazzante. Meglio, allora, fare come quei ragazzini che quando perdevano si portavano via il pallone prima del fischio finale, incapaci di accettare la sconfitta. Ma questa vicenda dice anche dell’altro, estremamente rivelatorio dei tempi oscuri in cui viviamo. C’è stata un’epoca illuminata in cui si riteneva fosse più importante ragionare sui punti in comune piuttosto che sulle differenze e che il giorno in cui ci saremmo liberati delle discriminazioni sarebbe stato quello in cui avremmo smesso, una volta per tutte, di prestare attenzione alle etichette: per considerarci tutti, finalmente, persone.

Purtroppo, se quell’epoca è finita da un pezzo, è a causa di meri interessi economici. Chi sale su un pulpito per dare patenti di agibilità vaginale, senza riconoscere agli avversari nemmeno l’onore delle armi, lo fa infatti per un motivo soltanto: i soldi. Perché spera che il più alto numero possibile di utenti clicchi sull’articoletto, si arrabbi, si indigni, si offenda e commenti, per poi scriverne ancora, con toni sempre più dogmatici, racimolando sempre più click. Perché spera, alla lunga, di crearsi una tribù di indignati di riferimento abbastanza ampia cui vendere l’articoletto, il libricino, il podcastello, il giornalone e domani chissà cos’altro ancora. Perché spera, in ultimo, di diventare ell* stess* un bel prodottino, con la spunta blu in bella vista come le banane coi bollini, essere vendut* al miglior offerente e poi espost* nei salotti televisivi come soprammobile inclusivo, come si faceva una volta con il piatto buono di ceramica in tinello. Da sempre, ogni religione è essenzialmente un portentoso mezzo per fare soldi e carriera: e la cultura woke, nella sua versione originale a stelle e strisce come in quella nostrana alle vongole, non fa eccezione. Ma questo, con donne e vagine e Meloni non c’entra assolutamente nulla. E nemmeno con la libertà.