Non mi venite a parlare di fortuna, per favore. A Sochi in Formula 1 questa domenica la pioggia ha stracciato pronostici e aspettative a soli cinque giri dalla fine della gara, ridisegnando una classifica che sembrava ormai formata. La griglia si è divisa in due schieramenti: chi ha azzeccato la scelta, ed è tornato ai box per montare gomme intermedie, e chi si è preso il rischio di restare fuori. I piloti e i muretti che avevano meno da perdere sono rientrati per primi, quelli più incerti si sono fatti fregare dalla speranza che la pioggia smettesse dopo pochi minuti.
Lando Norris ha urtato via team radio che no, non voleva rientrare per nessun motivo ai box. Lui il primo posto, la leadership del Gran Premio, non era disposto a lasciarla andare. La scelta, neanche a dirlo, è stata sbagliata. Ha vinto Hamilton, la centesima gara in carriera che inseguiva da qualche mese, e ha insegnato una lezione a un ragazzo che, di gara, voleva vincere la prima.
Norris ha perso per la foga, per la sicurezza, per il coraggio di fare una scelta e, perché no, anche per l'incapacità del suo team di prendere una decisione per lui. Hamilton ha vinto di squadra, di esperienza, rimediando all'errore che - proprio il giorno prima, in qualifica - gli aveva fatto perdere la pole position.

Ma no, non ha vinto grazie alla fortuna. La fortuna non aiuta gli audaci, non è cieca, e non risponde a proverbi e modi di dire. La fortuna in Formula 1 non esiste.
Stiamo assistendo a un mondiale incredibile, fatto di un colpo di scena dopo l'altro, di uno spettacolo continuo e garantito, e sentir parlare di fortuna è un insulto per chi questo sport lo ama così, per com'è e per come è sempre stato. Ci si prende dei rischi, con malizia o solo con intuito, si sbaglia, si stupisce, si fa cose grandi, comprese le figure di merda.
La storia di questo sport sarebbe potuta andare in mille modi diversi se, nelle situazioni più critiche, le cose fossero cambiate. Se Schumacher non avesse vinto il suo primo mondiale dopo aver colpito Damon Hill ad Adelaide 94, chi sarebbe diventato Michael? Se Suzuka 89 e Suzuka 90 fossero andate diversamente, che ne sarebbe stato della sfida tra Ayrton Senna e Alain Prost? Se il motore di Lewis Hamilton non si fosse rotto in Malesia come si sarebbe conclusa la stagione del 2016?

Gli esempi da fare potrebbero essere cento, mille, diecimila. E se avete una bandiera da portare alta, quella della vostra tifoseria, troverete sempre il modo di dire che sì, quel pilota è più fortunato di un altro. Che sì, Lewis Hamilton vince i titoli solo grazie alla macchina più forte e alla fortuna più sfacciata. Che ogni scelta strategica si trasforma in una botta di fortuna gratuita e che ogni evento riconduce, e ricondurrà sempre, solo lì.
Ma sapete cosa? Che noia. Che fastidio pensare che uno sport così, fatto di incastri perfetti, singoli punti che cambiano le dinamiche di una stagione o di un'intera carriera, possano essere sempre e solo ricondotti alla fortuna.
La carriera dei piloti e i cicli delle scuderie sono puzzle complicatissimi di pezzi simili ma diversi, enormi ingranaggi da far funzionare alla perfezione in cui ogni evento esterno, o interno che sia, può rompere tutto in qualsiasi momento. Un secco "no" di Lando Norris oggi ha sgretolato quello che sarebbe stato un doppio weekend perfetto della McLaren, mettendo in mostra le debolezze di un team che sta tornando alla luce e di un pilota giovane, caparbio, pronto a sbagliare mille altre volte ancora.
Ma se volete, continuate pure a dire che si tratta solo di fortuna.
