Non si chiama più “giro di poltrone”, ma “ostracismo”. A volte, anche auto-indotto. I direttori creativi non vanno più bene al management, mentre il management calpesta la creatività per il disperato desiderio di vendere e modernizzare un marchio ormai alla frutta. Ma cosa sta diventando il mondo della moda? Alla notizia dell’uscita di Pierpaolo Piccioli, dalla direzione di Valentino, dove era da ben 8 anni - prima era al fianco di Maria Grazia Chiuri, e prima ancora nell’anonimato dell’ufficio stile -, il fashion system ha cominciato a tremare. Sì, perché lo stilista originario di Nettuno, incoronato come designer dell’anno nel 2022, è stato preceduto da un’incalzante sequela di dimissioni da parte dei suoi colleghi big della moda. Dries Van Noten l’ha anticipato solo di qualche giorno, uscendo dall’omonimo marchio creato con le sue stesse mani e destinato a un successore da definirsi. Il motivo? Meglio dedicarsi al giardinaggio, e a tutte quelle attività consone a un 65enne che si è palesemente rotto le palle di arrancare nel tritacarne della moda. Gli stessi motivi che avrebbero indotto Walter Chiapponi ad una presumibile “pausa”, dopo solo una stagione - triste, molto triste - realizzata per Blumarine, preceduta da 4 anni brillanti alla direzione creativa di Tod’s.
Eppure, dopo Tom Ford che lascia Tom Ford e Raf Simons che lascia Raf Simons, non dovremmo stupirci più di nulla. Ma la crisi totalitaria del mondo della moda - soprattutto nei mercati di punta asiatici - dovrebbe suggerirci che qualcosa non stia andando per il verso giusto. Ma dopotutto, perfino un eretico se ne accorgerebbe: basta dare una rapida occhiata alle sfilate ready-to-wear, defraudate del benché minimo impulso creativo, agonizzando per rilanciare quel tubino senza identità e l’ennesimo mocassino con platform sfoggiato dalle web celebrity più idolatrate. Gucci è solo l’esempio più lampante di un brand che ha accompagnato alla porta un direttore creativo - Alessandro Michele - che triplicava i fatturati, per accogliere a braccia aperte un nuovo capitano, più docile e remissivo, che sta remando sull’orlo del fallimento (dati alla mano). Ma quindi, ad oggi, cosa diavolo dovrebbe fare uno stilista per dirigere un brand - e rimanerci dentro? Modernizzare, sì, ma non troppo. Ammiccare alla Gen Z, ma al contempo rimanere fedeli alla tradizione perpetuata negli anni. Dare sfogo alla propria creatività, ma senza metterci troppo “sé stesso” per non correre il rischio di snaturare l’heritage del marchio. E così via, tantissimi buoni propositi interrotti dall’incedere del “ma” proibitivo del dipartimento commerciale.
Prima di Piccioli, il caso di Valentino (Garavani) dovrebbe insegnare ai posteri: uno stilista che si è ritirato dalla scena nel lontano 2007, perché - a detta del braccio destro Giancarlo Giammetti – “le riunioni riguardavano solo i soldi, e non il design”. La moda, insomma, è diventata un compromesso a cui non tutti i creativi vogliono cedere. Fa da esempio il caso di Ludovic De Saint Sernin, il giovane stilista belga appuntato, due anni fa, al timone di Ann Demeulemeester, con la speranza di infondere al marchio di nicchia una nuova energia pop, strizzando l’occhio ai netizen. Tentativo che si sarebbe drasticamente concluso dopo una sola stagione a causa di “divergenze con il management”, quello stesso management che avrebbe puntato proprio sulla sua figura, fortissima sui social, ma purtroppo non all’altezza dell’incarico. L’industria della moda, dopotutto, prima di essere un sogno, è un sistema fagocitante e un’azienda da mantenere in vita. Ma in termini sociali, è anche un culto: se alle redini non c’è una figura di spicco carismatica, è raro che un brand riesca a forgiare il suo nome nella storia. Basti osservare la crescita organica costante di Louis Vuitton, che ai suoi vertici vanta di figure intoccabili come il surrealista Nicolas Ghesquière per la sezione donna, e per l’uomo ora il visionario Pharrell Williams - preceduto dal compianto Virgil Abloh, a cui oggi si guarda con venerazione. O ancora, Giorgio Armani, a cui nessuno mai toglierà lo scettro del re della moda italiana, ma anche - mirror speaking - Demna Gvasalia, alle redini di Balenciaga, che trasforma in hype tutto ciò che tocca, perfino una busta di patatine. Così come per l’arte, il cinema e la musica, anche la moda si nutre di personalità ed è profondamente legata alla risonanza del nome che opera ai suoi vertici. Dunque, perché tarpare le ali a chi della creazione e la creatività ha fatto le sue ragioni di vita?