Dopo anni di battaglie contro il body shaming e la valutazione della persona in base al corpo, molti brand si sono adattati alle esigenze e alle nuove tendenze aprendo letteralmente alle “taglie forti”. Finalmente, un pantalone di qualsiasi brand del fast fashion è acquistabile anche nelle taglie 48, 50 e così via. Questo rappresenta un segnale importante e un trionfo per coloro che da anni combattono contro l'istigazione all'anoressia promossa dal sistema moda. È un passo in avanti, ma non tutte le aziende lo hanno compiuto, come Brandy Melville, un brand americano, il preferito dalla Gen Z e costantemente al centro dell’attenzione per le sue taglie minuscole, in realtà astutamente non dichiarate: se entrate in uno dei loro punti vendita (in Italia sono in totale sei), non troverete indicazioni particolari, ma tutti i capi sono etichettati come “taglia unica”. Peccato che quasi nulla, a parte delle banalissime felpe oversize, corrisponda anche solo alla semplice “M”, dato che in realtà il fitting si concentra esclusivamente sulle taglie “S” e “XS”, ovvero sulle 38 e le 36. Sono misure ridicole per qualsiasi donna adulta e altrettanto surreali per un’adolescente dotata di forme. Proprio queste ultime, spesso mortificate dai capi che tanto ardentemente desiderano, sarebbero le più colpite da questa scelta che rende il brand “esclusivo” solo per ragazzine estremamente magre, minute e possibilmente bianche. È inutile dire che questo è il motivo per cui il brand, nato nel 2009 e fondato dall'italiano Silvio Marsan, è stato e continua a essere al centro delle polemiche: secondo i detrattori, Brandy Melville istiga deliberatamente ai disturbi alimentari. Non è chiaro il motivo dell'amore che rasenta il fanatismo per questi prodotti: lo stile di cui stiamo parlando è quello tipico della ragazza californiana, semplice, lineare, basico fino a risultare banale, e trae profitto dalle insicurezze delle giovanissime acquirenti, che intervistate, hanno dichiarato di aver perso peso per riuscire a entrare nei tanto desiderati, minuscoli, vestiti.
Insomma, Brandy Melville sarebbe uno dei tanti volti oscuri e fangosi della moda, protagonista inoltre di un documentario mai arrivato in Italia: “Brandy Hellville & the Cult of Fast Fashion”, un lavoro della pluripremiata regista Eva Orner, che accusa Brandy Melville di aver creato un ambiente che “coltiva disturbi alimentari e problemi di autostima”. Le ex dipendenti raccontano storie molto simili tra di loro: addette alla vendita assunte perché bianche e in forma, la pressione per rimanere magre era tale che molte si sarebbero ritrovate a lottare con i più svariati disturbi alimentari, mentre le dipendenti di colore e non in forma venivano, a sentire le persone coinvolte, destinate al lavoro in magazzino. La Orner non è l'unica ad aver criticato una società che sembra piena, pienissima di ombre: nel 2021 anche Kate Taylor, autrice di un’indagine di Business Insider, rivelò che ogni negozio di Brandy Melville in realtà sarebbe di una società di copertura, mentre il marchio, pare, sarebbe riconducibile alla proprietà di una società svizzera. La catena di produzione è italiana, e i capi sarebbero prodotti da una società che sfrutta l'immigrazione cinese. Per non farsi mancare nulla, ovviamente tre ex dipendenti avrebbero intentato causa contro l'azienda con accuse di razzismo, il tutto è ancora in fase preliminare. Nel 2023, la regina della moda Chiara Ferragni ha indossato un loro completo composto da top e pantaloncini a fiori, e la community dell'influencer le ha fatto presente che sembrava in pigiama. Ciononostante, il brand sembra riscuotere un discreto successo anche da noi. Forse non a Milano, ma a Roma sono molte le ragazze che apprezzano Brandy Melville, con tutte le problematiche del caso.