Milano, Corso Matteotti, due passi dalla centralissima piazza Duomo. Per circa dieci anni, dal 2009 al 2020, era facile imbattersi in serpentoni chilometrici (di clienti, si intende) che si snodavano attorno all’ingresso del negozio di Abercrombie & Fitch (A&F). Ragazzi e adulti, giovani e meno giovani: in quel periodo, quasi tutti, in Italia, sognavano di indossare una polo, una camicia, un pantalone o anche solo una t-shirt marchiata dall’alce, il logo caratteristico della celebre catena di moda statunitense. Una colosso conosciuto nel mondo intero, e che nel nostro Paese aveva puntato sul capoluogo lombardo, epicentro di stili e tendenze. Tra il 2017 e il 2020, dopo non pochi scandali e polemiche (il brand, per esempio, è stato più volte accusato di escludere minoranze e clienti fuori taglia) e conti ballerini (galeotti furono gli e-commerce low cost), il gruppo decise di chiudere il suo store milanese. Non solo quello, ma anche altri megastore emblematici: New York, Fukoka (Giappone), Hong Kong, solo per citarne alcuni. Il gruppo Abercrombie avrebbe così perso terreno, lasciando presidi ridotti in vari Paesi, Italia compresa, e affidandosi al marchio Hollister (che come logo ha un gabbiano e non un alce). E oggi? Ci sono i presupposti per un’inaspettata rinascita di A&F...
Il 2023, ha spiegato l’Economist, è stato anche l'anno dei Sloane Pant. I popolari pantaloni su misura hanno contribuito a far salire del 274% le azioni di Abercrombie & Fitch. Dieci anni fa, prima di ridimensionarsi, il marchio Abercrombie era diventato tossico. Adesso sembrerebbe star tornando di (gran) moda, tanto che l’azienda ha vissuto uno dei più notevoli glow-up del settore. “Sono finiti i cataloghi in bianco e nero sessualizzati e il personale snob”, ha scritto il settimanale anglosassone raccontando la svolta del marchio. Che, attenzione bene, vende ancora la sua famosa colonia "Fierce", ma non la pompa più attraverso i condotti dell'aria (siete mai entrati nel negozio di Milano?). Numeri alla mano, il 28 agosto il gruppo ha aumentato le sue previsioni di crescita del fatturato per l'anno al 13%. Anche dopo una fase di barcollamento, le azioni di Abercrombie sono aumentate di circa il 50% quest'anno. Cosa sta succedendo?
Innanzitutto, questa non è la prima reinvenzione di Abercrombie. Nel 1992 Mike Jeffries, un dirigente del commercio al dettaglio, fu incaricato di rilanciare quello che all'epoca era un venditore di articoli sportivi in declino (cosa che fece prendendo di mira gli adolescenti con abiti preppy, attillati e scollati). Nel 2006 il signor Jeffries ne riassunse la strategia in un'intervista: "Sinceramente, puntiamo ai ragazzi fighi... Siamo esclusivisti? Assolutamente". Quell'atteggiamento cominciò però gradualmente a irritare gli acquirenti. Jeffries si rifiutava di tenere in magazzino taglie da donna oltre la 10 (la 14 britannica) e qualsiasi cosa in nero o viola. Scrisse anche un "Look Book" di 29 pagine per i dipendenti. La sua ossessione per la vigilanza sull'aspetto portò a cause legali per discriminazione da parte dei suoi stessi lavoratori. Quel modus operandi appartiene al passato. Fran Horowitz, che ha assunto la carica di amministratore delegato nel 2017, dopo 15 trimestri consecutivi di vendite in calo, ha cambiato registro. Lo ha fatto nel bel mezzo del periodo di crisi raccontato. Sotto la sua supervisione, l'azienda ha fatto un uso migliore dei dati per capire quali prodotti offrire e a quali clienti rivolgersi. Invece di puntare sulle adolescenti, Abercrombie ora si rivolge alle 25-40enni, ma anche i clienti della generazione Z lo adorano. I giovani consumatori - un tempo bersaglio centrale del gruppo - possono rivolgersi ad aziende di fast fashion come Shein per i prodotti più economici, ma guardano ad Abercrombie per vestiti alla moda a prezzi ragionevoli. Chissà se, con questa nuova strategia, il gruppo non deciderà di riaprire i suoi megastore. Milano è ancora orfano del negozio che sorgeva in Corso Matteotti…