Nel 1957 esce “L’arte di amare” di Erich Fromm. È il sesto libro dello psicanalista e filosofo tedesco. Che ancora non conosce Chiara Ferragni (non un caso di mala-informazione o scarsa curiosità, specifichiamo). O il mondo degli influencer, che ancora non esiste. Esattamente come Chiara e i suoi epigoni. Così Fromm scrive: “La gente non pensa che l’amore non conti. Anzi, ne ha bisogno; corre a vedere serie interminabili di film d’amore, felice o infelice, ascolta canzoni d’amore; eppure nessuno crede che ci sia qualcosa da imparare in materia d’amore”. Rapido ma efficace. Anche perché questa era la realtà di tutti noi fino, grosso modo, a quindici-venti anni fa. Poi è accaduto qualcosa, o meglio: già ai tempi di Fromm stava accadendo qualcosa. Su cui era possibile dibattere, certo. Non stiamo parlando di verità scolpite nella pietra. Però era (ed è tuttora) persuasivo, Fromm, quando rintracciava nel capitalismo che già vedeva all’opera forsennato un intralcio all’amore. “Parlando dell’amore nella civiltà occidentale moderna, ci domandiamo se la struttura sociale della civiltà occidentale e lo spirito che ne deriva siano propizi allo sviluppo dell’amore. La risposta è negativa”, osservava. E poi spinge il discorso ancora più in là, parlando dell’amore (declinato in varie forme) come di un fenomeno ormai raro, braccato da un’idea di vita in cui tutto è quantificato e mercificato, una vita che dubita, profondamente, della gratuità. Ma cos’è l’amore, se non gratuità?
Fromm non era uno studioso della televisione. E comunque alcune delle menti più geniali del ‘900, alle prese con la televisione, hanno faticato. Pensiamo a “Televisione cattiva maestra”, non la miglior performance di Karl Popper (siamo nel 1994). Dalla televisione, però, arriva un primo tentativo di contraddire le premesse di Fromm, il discorso per cui nessuno vuole impararlo, l’amore – che sarà pure una materia, ma una di quelle alle quali non ci si deve applicare. Così, anni dopo il boom di Francesco Alberoni, che con “Innamoramento e amore” (1978) prova a separare in modo chiaro due momenti diversi della relazione, MTV nel 2001 – nuovo secolo, nuovi linguaggi – cala l’asso che non t’aspetti, quel “Loveline” condotto da Camila Raznovich con ospite fisso lo psichiatra, psicoterapeuta e sessuologo Marco Rossi. Un programma che gioca, ma non scherza, con i tabù. Che ci va giù piano, quasi morbido, perché le voci che intervengono da casa, in collegamento telefonico, spesso suonano preoccupate, ansiose, l’eco dell’Aids è tutt’atro che spento. Voci tremule, talvolta palesemente insoddisfatte. Si dovrebbe trattare di sesso in trasmissione, e così è, ma sovente il discorso scivola sull’amore, sul rapporto di coppia in senso lato. Stiamo parlando di un mondo, fra Fromm e gli influencer, che si preoccupa dell’amore e dei rapporti. Che ritiene che non proprio tutto, in quell’ambito delicato, possa sempre sgorgare spontaneo e naturale. Che qualcosa, riecco Fromm, vada imparato o ri-imparato.
Oggi – epoca post-timidezze, post-pudore, post-ingenuità – il re è nudo. Non sappiamo più cosa sia davvero l’amore. I più lo hanno incontrato, lo hanno conosciuto e riconosciuto. Il problema è il (nuovo?) concetto di amore all’interno di una società dinamica. Può oggi l’amore essere una sorta di simulacro – e in quanto tale, immobile – su cui i nervi del presente si infrangono senza lasciare alcuna traccia? Ovviamente no. Ma se l’amore è ancora la base di tanti tipi di relazione, ecco che all’amore servono nuove definizioni, nuove pratiche. Definizioni e pratiche aggiornate, figlie consapevoli di un sentire spesso confuso, contraddittorio e immaturo. Il cerchio, a questo punto, parrebbe chiudersi. Da Fromm, che lamenta l’assenza di un amore che vada anche imparato, a un profluvio di psicoterapeuti e love coach che sulle relazioni d’amore plasmano il loro verbo, il loro essere influencer. C’è chi la mette giù dura, chi più sul ridere. Da Mary G. Baccaglini, una delle prime love coach italiane, a Matteo Radavelli, specializzato in psicoterapia sistemico-relazionale, passando per l’ipnotica e promettente Concetta Pagoria, la lista è fitta, le voci varie, i discorsi frammentati in tanti reel, tante storie, e a sfuggire, talvolta, è la visione d’insieme. Tante le specialità in gioco: c’è chi ti prepara, “scientificamente”, alla riconquista dell’amato/a perduto/a. Chi ti mette in guardia dal narcisista (per quanto ormai abusato possa risultare questo termine), quasi sempre maschio. Chi ti invita a non posticipare a domani ciò che puoi fare oggi o dovevi aver già fatto ieri. Chi ti promette che liberarsi dalla dipendenza emotiva è possibile. E così via. La questione è che tutte queste guide, queste risposte – cercate voi quella che più vi convince –, tutte insieme, rischiano addirittura di creare un po’ di caos. Quanti influencer devo seguire per farmi un’idea sull’amore tutto? Quanti ne devo seguire per imparare l’amore? Raffaele Morelli, psichiatra e psicoterapeuta, noto e apprezzato volto televisivo nonché direttore di Riza psicosomatica, a tratti fromm-iano, direbbe forse che troppo pensiero fa male, che bisogna accogliere il disagio, la nostra imperfezione. Che tutto questo cogitare forse non ci fa così bene. Che tutto questo spaccare il capello in quattro non è ciò che Fromm auspicava. Forse il filosofo tedesco immaginava altro, quando parlava di “imparare” ad amare. Forse immaginava esseri umani capaci di pensare l’amore come una grande collezione di azioni/gesti di un certo tipo. Un amore assoluto: per la vita, le cose, la natura, i nostri simili, i nostri quotidiani impegni. Non pensava e non sperava, crediamo, che imparare ad amare sarebbe stato un travaglio così dannatamente analitico.