Questo parlare a me stessa in segreto forse non chiede che l’impossibile a Dio. Non sei tu il Dio dell’impossibile? Vederlo tornare come Lazzaro, dal sepolcro. Immacolato, innocente, il cherubino. Puoi farlo? Puoi? Quando Matteo è morto era un pomeriggio torrido di agosto, il venerdì della Passione di Cristo. Sono trascorsi tredici giorni, ma il tempo è finito in una clessidra obliata ed è il tempo dell’Eterno, l’alfa e l’omega, il cerchio della perennità. Sostavo nella chiesa di San Biagio, a Tivoli, erano le diciotto. Avevo pregato per noi. Aiutaci, avevo pregato; dinanzi avevo l’altare, al lato della navata la tela di Gesù della Divina Misericordia. D’un tratto mi raggiunse un profumo intenso, dolce o sublime o di fiori. Mi guardai intorno e mi pare di aver guardato Gesù nella tela e mi pare anche di aver sorriso. Cos’è? Non era l’incenso. Il prete celebrava. Matteo era già morto, credo, o stava morendo allora? È stato il mio ultimo amore. Così giovane, così nuovo, non so come spiegare. Perché proprio a me? Sono vecchia, perché dimmi?
L’amore accade. Sì. Per questo fino alla fine ne ero certa: non morirai, Matteo. Eppure lo vedevo sgorgare il dolore imperscrutabile, la sofferenza dello spirito, e succede nelle anime elette, qualcosa di biblico e ineffabile. Come lo era Matteo, dal volto antico, i bellissimi capelli chiari, colore del miele, enormi occhi verdi, azzurri, celesti, non lo so più. Quando Gianmarco Aimi mi ha chiesto di scrivere di questo amore tragico, ho riflettuto, alla famiglia porterà conforto, allora ne scriverò. E lo devo a Gianmarco anche, perché questo amore (Gianmarco non lo sa) è entrato nella mia vita grazie a lui, grazie alla sua intervista su Rolling Stone e che Matteo ha letto, un giorno di settembre. L’amore non ha ragione. Era un sospiro. È stato un calvario, un calvario amoroso, una storia cristica, doveva quindi finire in Croce. Era un’anima prescelta. Il suo dolore aveva un nome in psichiatria. Ha indossato il paramento del dolore, non lo avrei lasciato mai. Era la risposta a una preghiera. Quando lui smarrito mi chiedeva: chi sono io? Io gli rispondevo: sei una preghiera.
La preghiera esaudita: saremo l’uno per l’altro lo strumento dell’amore di Cristo. Saremo l’uno la salvezza dell’altro. E Matteo quasi subito, senza sapere la profondità e l’esattezza della preghiera che recitai una notte, cominciò a parlarmi di salvezza, di reciprocità. E in lui c’era una bellezza cristica, un patire cristico, ardeva un amore abnegato. Un amore cristico. Ero sconvolta. Sembra la profezia realizzata. La profezia accaduta. Non dovevo più cercare l’amore. Chi mi avrebbe amato di più, fino al gesto estremo. Un primo tentativo, e fu un miracolo. Perché era vivo. Non cercava le tenebre. Nemmeno allora. Era vivo. Bisognava solo costruire una vita insieme. E credevo che fosse possibile, che non fosse il fremito sulla soglia di un sacrificio. Sull’altare. Isacco e Giacobbe. Matteo ha letto l’intervista di Gianmarco su Rolling Stone, vide la mia foto (foto che detestavo, il viso segnato, scattata durante una partecipazione alla Festa de Il fatto Quotidiano). Si è innamorato. E mi ha scritto. Scriveva che non faceva che pensarmi. Ho cercato di allontanarlo: sei troppo giovane, ho un figlio della tua età, obiettavo, con una stupida albagia, convinta ancora di poter ostacolare le stazioni del destino.
Matteo era un cherubino. Incapace di mentire. Neonato al mondo. Non poteva restare. Dio se li riprende. Perché non me lo hai lasciato ancora? Ancora un po’? E adesso. Mi chiedo. E adesso. Il penultimo giorno, sedevamo nel parco di una villa ottocentesca, a Tivoli, il sole era dorato e piombava oltre i cipressi, su una Roma sconfinata ai nostri piedi. Sarai mia per l’eternità, mi disse piangendo. Piangeva spesso con me, l’amore lo commuoveva, era sopravvissuto al deserto e io - diceva - ero la sua sorgente o anche: la memoria della sua coscienza. Ha ripetuto tre volte: amore mio. Sembrava una giaculatoria, il sussurro sul Golgota. Il pianto del cielo che si dischiude precipitando in una pioggia di misericordia. Ripose il libro di un poeta arabo e le poesie d’amore nel suo zaino. L’amore accade, disse. Fu l’ultima volta che lo vidi. Lo devi accompagnare, mi aveva annunciato un sacerdote polacco, nella mia città, settimane prima. Finché fosse pronto. Accompagnarlo alla vita per sempre. Non alla morte. Alla resurrezione. Matteo è in cielo, mi ha detto suor Noemi, del convento di Sant’Anna, di Bastia Umbra. Io lo vedo Matteo: ha un saio bianco, i lunghi e forti capelli biondi sulle spalle, una cinta dorata ai fianchi. È nella luce. Non teme, non soffre. E io? E io? Dovevo ancora vedere che colore avesse l’autunno nei suoi occhi. O la neve sui monti di Ciciliano. E Natale. Sei la mia Maddalena, diceva.