Nell’aria calda di agosto, Milano si ferma per il concerto delle Blackpink. All’Ippodromo Snai La Maura, per una notte, la città diventa epicentro di un culto pop che supera i confini linguistici e geografici. Lisa, Jennie, Rosé e Jisoo non sono solo le protagoniste dell’unica tappa italiana del loro Deadine World Tour: sono l’incarnazione di una nuova religione laica, dove l’adorazione è urlata, i rituali sono coreografie e le offerte si misurano in biglietti da 103,5 euro (più commissioni) a salire, da tempo introvabili nel pit sottopalco. Cosa spinge migliaia di adolescenti (soprattutto ragazzine), i Blink, a convincere i genitori a sborsare cifre da capogiro per vederle da lontano? La risposta va oltre la superficie di una popstar e lambisce le acque più profonde della contemporaneità: identificazione, desiderio di appartenenza, sogno di un altrove che solo il K-pop sa raccontare con questa forza visiva, sonora, estetica.
Le Blackpink sono la girl band K-pop più famosa del mondo, la più seguita su YouTube (oltre 95 milioni di iscritti) e la prima a scalare vette considerate inaccessibili. Dal debutto nel 2016, il gruppo colleziona primati, come l’essere stata la prima girl band K-pop a esibirsi al Coachella e il primo gruppo asiatico headliner del festival, nonché la prima band femminile k-pop a entrare nella top 40 di Billboard 200, e ancora Guinness World Record, collaborazioni con Dua Lipa, Selena Gomez, Cardi B e Bruno Mars. Cosa c’è, però, dietro l’alchimia?

La vera chiave non è solo la musica. È un impasto di estetica, attitudine e narrazione. Blackpink significa contrasto: il nero della forza, il rosa della vulnerabilità. Come dichiarato da YG Entertainment: “‘Pretty isn't everything.’ Simbolizza che sono una squadra che racchiude non solo bellezza ma anche grande talento”. In un’epoca che idolatra il perfezionismo social, loro alzano l’asticella: “Più che la pressione, siamo pronte a restituire ai fan quanto ci danno. Ci motiva ad andare oltre ogni sogno”, ha confidato Jennie a Grammy.com. I Blink, così si chiamano i fan, non si limitano ad ascoltare: vivono la band. Studiano le linee di ballo, i cambi look, i significati reconditi dei testi. Rincorrono i video “fancam” dove ogni componente viene isolata, decifrano ogni sorriso, ogni gesto, ogni story su Instagram. In quei momenti, Lisa, Jennie, Rosé e Jisoo diventano specchi e oracoli, non solo poster da cameretta. Ecco la forza del K-pop: la costruzione di un mondo totale, dove nulla è lasciato al caso e ogni canzone è un microcosmo visivo, linguistico, emotivo.
Eppure, le Blackpink sono un’anomalia anche nella galassia K-pop. Hanno pubblicato meno di due dozzine di brani tra il 2016 e il 2020 (People), eppure ogni singola uscita è evento mondiale. Hanno portato lo storytelling visivo all’estremo, con video che cambiano styling, mood e palette cinque o sei volte in pochi minuti. Hanno reso la dualità, indipendenza e fragilità, girl power e malinconia, il loro manifesto. E soprattutto parlano la lingua fluida di una generazione globale: inglese, coreano, ma anche meme, estetica Instagram, valori trasversali.
Il prezzo del biglietto, allora, è un pedaggio d’iniziazione. Per i genitori, può sembrare solo un capriccio costoso. Per chi sta crescendo oggi, è l’accesso a un rito di passaggio, la partecipazione a un momento irripetibile: il live come coronamento di un sogno di comunità, la materializzazione del mantra “Blackpink in your area”.
