E adesso è arrivato Brunello, il visionario garbato, il documentario con cui Giuseppe Tornatore ripercorre a grandi pennellate la biografia di Brunello Cucinelli. La pellicola alterna variamente fiction, repertorio e voci di amici e collaboratori. Ne affiora un ritratto chiaramente agiografico e decisamente stucchevole, con un intento celebrativo che – con punte di lirica goffaggine - rasenta la beatificazione in vita. Insomma, il capolavoro dell’ideologia padronale e della sua velleità di fare sì che le masse diseredate dei descamisados della globalizzazione infelice – rectius, della “glebalizzazione” –, anziché insorgere nel nome di desideri di migliori libertà, amino con gratitudine le catene del sistema che quotidianamente le opprime e le mortifica. Che il modello Cucinelli, a tinte etiche e radicato nel territorio, sia preferibile a quello degli squali apolidi della finanza o dei capitalisti spietati descritti nei romanzi di Dickens, nulla quaestio: ma che detto modello sia l’ideale da beatificare e da celebrare con docile gratitudine pare massimamente questionabile. L’ideale dell’umile contadino che, tirandosi su le maniche, realizza l’american dream di farsi da sé e di ergersi a modello universale è qualcosa di già visto e che, francamente, auspicavamo appartenesse a un regime discorsivo, se non propagandistico, consegnato al museo delle anticaglie. E invece ecco che tornano a proporcelo con zelante insistenza. È, insomma, l’autogratificante narrazione padronale di un sistema che, pur fondando – oggi più di ieri – il paradiso dei pochi sull’inferno dei più, seguita a riprodursi indisturbato e magari anche a fare proseliti tra coloro i quali tutte le ragioni avrebbero a opporsi al capitalismo e, invece, con ebete euforia, sognano di essere inclusi nel suo regime di apartheid globale e di diventare, appunto, i nuovi Cucinelli 2.0.
Lo asseriamo senza ambagi e senza perifrasi edulcoranti: se non altro, il vecchio capitalismo “grigio” della Coketown del romanzo Hard Times di Charles Dickens non ambiva a presentarsi come etico e istruttivo. Lo sfruttamento era lampante e ovunque presente: non andava in giro imbellettato e a glorificarsi come modello etico universalmente valido anche per i misérables che lo subivano. Il nuovo capitalismo arcobaleno dei nostri tempi si fa, per certi versi, ancora più paternalistico: pretende di farsi modello da ringraziare ossequiosamente, trasformando i suoi protagonisti – è accaduto con Marchionne, pace all’anima sua, e accade ora con Cucinelli – in altrettanti eroi a cui ispirarsi. La lotta di classe cede il passo alla competizione tra servi che aspirano a diventare ricchi, felici e – oltretutto – buoni come i loro padroni. Il modello Cucinelli piace a tutti, dall’estrema sinistra neoliberale all’estrema destra neoliberale (per inciso, Giorgia Meloni era presente all’anteprima della pellicola): e ciò che piace a tutti, senza spirito critico e per spirito di gregge, deve sempre essere sospetto e indurre al pluslavoro della critica. Il modello del top manager sorridente che, calzando il suo elegante cashmere, si innalza a paradigma etico è quanto di più surreale possa esservi, peraltro in coerenza con un’epoca in cui – potenza del pensiero unico liberal-capitalistico! – turbocapitalisti fashion-addicted e ammiragli senza frontiere del big business planetario cessano di essere connotati come nemici di classe e prendono a essere encomiati come filantropi o, con una categoria di nuovo conio della neolingua padronale, come filantrocapitalisti.
In ciò si esprime perfettamente lo spirito del nostro tempo senza spirito, in cui – Pasolini docet – il capitalismo stesso pare funzionare meglio con un software di sinistra, liberal e progressista, edonista e permissivo: il modello, per intenderci, del radical chic, dell’abitatore della ZTL e del viaggiatore della executive class: liberale politicamente, liberista economicamente e libertario eticamente, egli è glorificato come modello e magari anche, come ora accade con la pellicola di Cucinelli, magnificato come modello a cui tutti dovremmo ispirarci. Ringraziamo per l’offerta ma a Cucinelli – ci perdonerete – continuiamo a preferire Marx, Gramsci e, au fond, il tempo in cui PC era la sigla di Partito Comunista e non di Politicamente Corretto, come invece è oggi con la sinistrash padronale, guardia fucsia della globalizzazione liberal-progressista.