La presenza di Giorgia Meloni alla première di ieri del documentario su Brunello Cucinelli, commissionato a Giuseppe Tornatore, con le musiche commissionate a Nicola Piovani (anche gli artisti come “dipendenti felici” del mecenate illuminato, vero?) è un (dato di) fatto importante, sul quale bisogna riflettere, così come nell'allure cucinellesca sto facendo, accanto al camino acceso, attorniato da libri, gatti e cani, e posso con relativa certezza dire che si tratta di una narrazione fatta di frustrazione, vendetta, volontà di potenza, rabbia, fregature reciproche, delirio, una sorta di narrazione “settaria” ingentilita dalla fotografia delle immagini di Tornatore. E la presenza di Giorgia Meloni ribalta tutto, ossia ribalta la percezione della società italiana per come l’abbiamo percepita sino adesso, e teniamo presente che il premier (al maschile) ha presenziato a questa prima proprio nei giorni in cui gli Agnelli-Elkann stanno cedendo i quotidiani attraverso cui si “vestivano” di una quale certa, come chiamarla, illuminatorietà, che fa rima con taffetà. (Ricordiamo che qualche giorno fa, Il Foglio, sosteneva che la Schlein volesse coinvolgere proprio Cucinelli nell’acquisto di Repubblica).
Giorgia Meloni, ieri, ha espugnato il fortino intellettuale italiano, quello “progressista”, raffinato, colto, ma al servizio del Capitale. E, da parte sua, il “Capitalismo Etico” di Brunello Cucinelli ha mostrato il suo vero volto.
Per capire esattamente dove voglio andare a parare, vi spiego facile il Capitalismo Etico di Cucinelli (e no, non ha nulla a che vedere con Adriano Olivetti, riposi in pace): una cosa è prendere l’Etica e capire come farla fruttare, cosa non facile perché “produrre eticamente” obbliga a una serie di scelte antieconomiche; altra cosa, prendere il Profitto e cercare di renderlo etico, che è come mettere i buoi sotto il carro e che in termini prettamente scientifici, filosofici ed economici si chiama, tassonomicamente, supercazzola.
Non sottovalutate la supercazzola: essa è la categoria della Critica della Ragion Pratica sulla quale si è fondato il nostro paese dal Dopoguerra fino ai giorni nostri. Chiamiamo, ovviamente, supercazzola, il “kitsch” così come lo ha descritto una volta per tutte, in maniera profetica, il caro Hermann Broch; ma oggi anche questo lemma magnifico, il “kitsch” appunto, viene adoperato come se il suo profondo significato si riferisse alle carrozze di plastica dei prediciottesimi o alle mise ipergriffate usate dai maranza. Così preferisco usare il termine supercazzola.
Tutto il documentario, dal titolo che può risultare perfido, “Il visionario garbato”, sembra una carina, ben confezionata, elegante, visionaria nel senso di “delirante”, supercazzola di una persona di origini “umili” — viene da una famiglia di mezzadri — che si è voluto fare “barone”: tutta l’estetica dei muri e delle tavolate nei bagli vuole ricalcare un modello di aristocrazia rurale che Brunello Cucinelli ha visto (e probabilmente invidiato) nella sua infanzia trascorsa in una casa senza acqua né elettricità (ma neanche i baroni, quelli veri, ossia quelli legati ai possedimenti terrieri, che vivevano più in campagna e per i quali i palazzi in città erano solo di “rappresentanza”, godevano delle gioie della modernità) e ci mostra, nella sua affettazione “snob” (da sine nobilitate, gli studenti non aristocratici, quando vennero ammessi ad Oxford e Cambridge, venivano segnalati nei registri con la dicitura “s.nob”), tipica di chi “imita” uno status o una identità senza possederla, il fiorire del kitsch della società moderna (in mano ai parvenu) che fonda il suo pensiero su una continua supercazzola, arte in cui, scarpe grosse e cervello fino, i contadini hanno sempre praticato con successo.
La spiritualità, la profondità, l’illuminazione di Brunello Cucinelli non è nient’altro che un fenomeno new age – di destra – fiorito negli anni ‘80 del Capitalismo sfrenato e dei guru del marketing, in cui un “sarto” non era mai un “sarto” ma un maestro di un qualche genere di visione del mondo: la clientela aveva fatto i soldi ma non aveva una identità, era ricca di danaro ma povera di spirito e i “sarti” cucivano loro addosso uno “stile”, stile che, non avendo substrato, era, per definizione, una supercazzola “kitsch”, dal tedesco: roba artistica-commerciale scadente, banale, sentimentale, artificiosa, prodotta per piacere facilmente e vendere bene, che fu anche, ed esattamente, l’accusa che fecero ai quadri dipinti da Hitler. Le aziende à la Cucinelli sono, per definizione, dirette da un “guru”, e per essere parte di questa “grande famiglia” tu “devi” essere felice, “devi”, perché la tua felicità non è al tuo servizio, ma al servizio del guru: tu sei felice, il guru ne risplende; se non sei felice stai insultando il guru, e per questo vai estromesso, chi non è felice è uno “scioperato” della felicità, che, in buona sostanza, è l’espropriazione definitiva dell’anima del lavoratore operata dal Capitale: neanche la tua felicità è più roba tua, ma roba dell’azienda. A me pare un incubo. Dio ci preservi i nostri santi giramenti di balle.
La new age dei guru profondi e spirituali è del tutto simile alle grandi realtà editoriali in mano agli Agnelli, supercazzolosamente orientate a una sinistra progressista che è stata accompagnata per mano fino al nulla armocromatico della Elly Schlein. La vicenda di Cucinelli nella moda (dove sei mia amata Naomi Klein di “No Logo”) è del tutto identica alle vicende intellettuali di questo paese: apparentemente concentrati sui valori etici, ma sostanzialmente orientati al Capitale.
Nel momento in cui quel modello svanisce, Cucinelli corre dalla Meloni e la loda. Perché la verità della première di ieri è che — al di là delle supercazzole — è Cucinelli che è andato alla vera première intellettuale di Giorgia Meloni. Non il contrario, come può sembrare a uno spettatore disattento. E Giorgia Meloni dovrebbe ringraziare non una, ma due volte, Brunello Cucinelli e tutto ciò che il sarto ha fatto. Perché se Giorgia Meloni ha vinto e continuerà a vincere è perché il fronte “progressista” è stato abitato da imprenditori come lui. No, non c’era la Schlein ieri, a riprova di come la Meloni sia l’individuo alfa. Ovviamente il documentario è bello, è tutto ciò a cui la nostra raffinata sinistra tende. Persino le cromaticità armoniche della Schlein impallidiscono di fronte all’immaginario messo in scena da Tornatore e sottolineato dalle musiche di Nicola Piovani. Se si va avanti così, e per essere ammessa al circolino, finirà probabilmente che anche la Schlein dirà pubblicamente di votare per la Meloni. Perché tra il “visionario garbato” e “il premier Garbatella” non c’è storia: vince a mani basse la seconda.
Per concludere, vorrei sottolineare la bellezza delle immagini di apertura del documentario. È notte e ci sono filari immensi di vigne illuminate da fuochi accesi per combattere la gelata. E a me, adesso che il camino si sta spegnendo e i gatti iniziano ad agitarsi per la fame, viene in mente una scena: un signore malmesso, col cappello in mano, che nella notte, con i piedi gelati perché ha le scarpe sfondate e le calze le ha date ai figli in questa notte particolarmente fredda, dice al proprietario della vigna: “Signore, i bambini hanno freddo e voi incendiate la legna per riscaldare la vigna?”. E il padrone delle vigne, paterno, accarezza la testa del pover’uomo e gli dice: “Caro, i bambini muoiono di freddo e le vigne sono al caldo, ma dalle vigne maturerà il vino e noi lo berremo parlando di filosofia, di politica, di economia, e così facendo salveremo i bambini. E tutti ci saranno grati”.
The End.