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Quarant'anni dopo "Cosa succede in città" con Maurizio Solieri, il chitarrista di Vasco Rossi. "Oggi la gente ha fretta di avere successo, ma le cose arrivano piano piano"

  • di Gianmarco Serino Gianmarco Serino

  • Foto: Ansa

9 dicembre 2025

Quarant'anni dopo "Cosa succede in città" con Maurizio Solieri, il chitarrista di Vasco Rossi. "Oggi la gente ha fretta di avere successo, ma le cose arrivano piano piano"
A 40 anni dall’uscita di Cosa succede in città, Maurizio Solieri racconta la musica, la provincia, l’incontro con Vasco Rossi e gli anni ’80 italiani tra rock, passioni sfrenate e città che sembravano l’ombelico del mondo

Foto: Ansa

di Gianmarco Serino Gianmarco Serino

Spesso i ritratti più accurati di un’epoca si ritrovano in quelle opere d’arte concepite con tutt’altro scopo, o addirittura senza alcuno scopo, se non quello di godere. Ma godere di cosa? Di un mondo che è cambiato, gli anni settanta sono finiti, gli anni di piombo no, le città sono ormai capitali del vizio, dello scontro politico, delle passioni sfrenate ora libere di aggirarsi indisturbate tra i bar e le balere delle città italiane, provincia del mondo e al tempo stesso ombelico dell’universo. E’ il 1984, Vasco Rossi è appena uscito dal carcere di Pesaro dopo quasi un mese di cella per esser stato beccato con della cocaina. Più rock di così non si può, dopo una Vita Spericolata, di lì a poco uscirà il disco Cosa succede in città. Un disco rock che però coglie tutte le sfumature dei suoni che attraversano quell’epoca storica, chitarre stratificate, delays, quattro quarti che sottendono griglie di sedicesimi ormai “tirati avanti”, sono finiti i tempi di John Bonham. I Police hanno cambiato tutto, eppure Maurizio Solieri, il chitarrista di Vasco che arriva dalla provincia modenese, sin dai tempi del militare, quando suona, quando scrive, pensa ancora ai chitarroni di Elvis, alle danze pettinate dei Beatles, al suono caustico e tagliente della chitarra di Jimi Hendrix. Suona, gode di quel che suona e incarna tutto quel complesso di cose per cui la musica americana, quella britannica, attraversano il mare e arrivano nello stivale, come delle astronavi aliene, piene di magia. Questo è “Cosa succede in città”, un disco che lo storico chitarrista di Vasco Rossi ha contribuito a scolpire nel tempo. Solieri, a distanza di quarant’anni dall’uscita dello storico disco si è raccontato a Mow e ci ha raccontato di come tutto è iniziato, di cosa significasse fare musica con Vasco Rossi e di cosa non torna nella musica di oggi. Un ritratto del tempo che è passato, ma che non se ne è mai andato davvero, perché continua a suonare nei nostri cuori, e come suona.

Maurizio Solieri alla chitarra Ansa
Maurizio Solieri alla chitarra Foto Ansa

Qual’è stato il momento in cui hai sentito il bisogno di suonare uno strumento?

Io avevo 8 anni, 7-8 anni. I miei fratelli più grandi, 10-11 anni, facevano l’università. Mio fratello era stato un anno in California, quindi era tornato con i dischi di Elvis, dei Beach Boys e di tutta questa gente. Mia sorella studiava lingue a Parigi e fu la prima a portarmi un disco dei Beatles nel 1963. Questa chitarra che suonava sicuramente in un modo ben diverso da come sarebbe stata da Jimi Hendrix in poi. La chitarra, poi, era anche l’oggetto da esibire, l’oggetto facile da portarsi in spiaggia, come dicono in tanti, intorno al fuoco. E comunque mi affascinava moltissimo, soprattutto dopo che senti i primi gruppi inglesi: gli Yardbirds, gli Shadows, i Cream, Jimi Hendrix, e tutta questa gente qua. Un fulmine a ciel sereno, insomma, tant’è che mia madre mi regalò una chitarra Eko da 8.000 lire, e per me era qualcosa di magico.

All’epoca ci avresti mai creduto se ti avessero detto che saresti arrivato a fare un disco come Cosa succede in città?

Assolutamente no, erano altri tempi. Adesso tutti si guardano allo specchio e vogliono essere delle star, pur non essendolo. Allora, voglio dire, io vivevo in un piccolo paese della provincia di Modena, per cui più che comprare giornali tipo Ciao Amici o vedere qualche programma televisivo, noi di musica sapevamo ben poco. Un mio caro amico, che studiava lingue, andava spesso a Londra e tornava con i dischi dei Jethro Tull, degli Humble Pie, dei Genesis… questa musica arrivava come da un altro pianeta. Era una meraviglia, assolutamente. Tornando alla tua domanda, non ci pensavo affatto. Avevo la passione. Avevamo fatto un trio dove facevamo i brani che all’epoca erano molto amati: Sunshine of Your Love, White Room dei Cream, poi Hendrix, i Beatles, i Rolling Stones, John Mayall, e tutta questa gente. Suonavamo nel nostro paesino, nei localini, e così. Ma nessuno di noi si sarebbe mai messo in testa un’idea simile. Le cose arrivano un po’ alla volta, se arrivano.

Nascere in provincia cosa rappresenta per un musicista, un limite oppure un vantaggio?

Eravamo un gruppo di amici che dalla provincia se ne andava a Bologna a vedere i concerti, come gli Emerson Lake & Palmer allo stadio di Bologna, tutti i gruppi minori inglesi che venivano nelle balere dell’Emilia-Romagna. Io mi ricordo che vidi i Genesis quando in Inghilterra non li cagava nessuno, ed erano già molto famosi in Italia. La musica la toccavamo, la raggiungevamo, anche per la lettura di libri, biografie, giornali. Non è mai stato un limite, anzi, è stato uno stimolo ad andare avanti. All’epoca non c’erano scuole musicali, non c’era niente. Io ho iniziato a imparare i primi rudimenti musicali dal maestro della banda del mio paese, che però non suonava la chitarra, ma il clarinetto. L’importante è avere la passione, suonare e fare pezzi che amavamo. Poi pian piano le opportunità sono arrivate, con la radio, attraverso questo mio amico che mi ha presentato Vasco Rossi, un suo compagno di collegio, e così via.

E tu comunque sei passato dalla provincia di Modena, poi sei andato a fare il militare, e tornando hai conosciuto Vasco Rossi

Sì, ho conosciuto Vasco tramite questo mio amico, purtroppo scomparso negli ultimi mesi, che si chiamava Sergio Silvestri. Era compagno di collegio di Vasco quando stavano dai Salesiani. Pensa un po’, Vasco Rossi, la rockstar maledetta, anche lui ha fatto il collegio! Nei weekend avevano il permesso di poter suonare la chitarra. Vasco, quando poi l’ho conosciuto, che già faceva il Dj ed era già famoso nel giro dei locali dell’Emilia-Romagna, amava molto la musica e la chitarra. Per cui, dopo il servizio militare, anzi durante, tornai e ci vedemmo con Vasco alla stazione dei treni di Modena. Poi andammo a Milano a fare questi famosi provini dove andavano prodotti dei demo. Andare in uno studio di registrazione a Milano era una cosa fuori dal comune, quindi vivevamo tutto pian piano con grandissima passione.

Maurizio Solieri e Vasco Rossi Ansa
Maurizio Solieri e Vasco Rossi Foto Ansa

Quindi il tuo primo conoscere Vasco Rossi è stato anche il tuo primo impatto con Milano?
Sì, certo, assolutamente.

E che anni erano, che aria si respirava?

Era l’inverno del 1977, e ci sembrava tutto un sogno. Però il nostro lavoro lo facevamo, anche se non eravamo iper professionisti. Io fui chiamato perché all’interno della radio si erano formati tre “puntautori”, ovvero cantautori di Punto Radio. Vasco Rossi, Sergio Silvestri e Riccardo Bellei. Già Gaetano Curreri, che poi sarebbe diventato tastierista prima del primo gruppo di Vasco con il sottoscritto, poi con Lucio Dalla, gli Stadio e via andare, faceva parte anche lui della partita. Io fui chiamato come chitarrista per suonare in questi brani inediti che avevano composto questi tre puntautori. Poi tornai al servizio militare. Quando lo finii, nell’estate del ’77, anch’io ero già stato invitato da Vasco a entrare nello staff di Punto Radio: andai su a Zocca e cominciai un programma di jazz. Da lì pian pianino andarono avanti tutte le cose. Comunque a proposito di che aria si respirasse… noi respiravamo della gran musica. Della politica non ce ne fregava un cazzo, assolutamente. Per noi la musica era la cosa più importante. Mi ricordo che un giorno andavo a trovare un amico a Bologna, era il giorno in cui ammazzarono Lorusso. Vidi tutta la situazione. Però devo dire, chi ama la musica, in generale della politica se ne interessa poco. I politici mi stanno anche un po’ sul cazzo, soprattutto perché alla fine risulta sempre tutta una cosa finta, fatta solo per avere potere e dei gran soldi.

Com’era lavorare con Vasco? Ci sono state fasi più semplici e altre più difficili?

Eravamo tutti amici. Abbiamo vissuto un anno a Zocca e ci vedevamo tutti i giorni facendo riunioni di redazione per la radio. Poi la radio passò a Bologna, perché sembrava che sarebbe uscita una legge che avrebbe limitato a 15 km il raggio d’azione della radio. Sarebbe stato un grosso problema per la pubblicità, che manteneva la radio, pubblicità locali dell’Emilia-Romagna. Poi abbiamo cominciato a fare i primi dischi nella prima sala di registrazione di Bologna, che si chiamava Fonoprint, 16 piste. È stato tutto molto graduale. Ogni tanto la radio organizzava feste in cui si suonavano i primi pezzi. Si andava tutti da Vito, una trattoria dove c’erano i musicisti di passaggio da Bologna. Il ritrovo era a mezzanotte. Tramite Paolo Pasqualini conobbi sia Maurizio Lolli che Guido Elmi. All’epoca facevano tutt’altro. Guido aveva una grande passione per la musica. Io lavoravo in una radio di Bologna insieme a Massimo Riva e al pomeriggio lavoravo dal grande manager Bibi Ballandi, facendo un po’ talent scout per trovare i musicisti da affidare agli artisti di Ballandi, per forgiare le band che avrebbero accompagnato Orietta Berti, Al Bano e Romina e tutti gli altri. Con Vasco ci vedevamo, facevamo molte prove, andavamo in sala prove, e molti pezzi sono nati così, Colpa d’Alfredo, Siamo solo noi, tanti altri. Ognuno ci metteva idee, io ero lo specialista nel cambiare accordi, trovare riffs particolari. Con Vasco si lavorava bene. Quando poi cominciai a scrivere musiche per Vasco – il primo pezzo fu Canzone (1981-82) – lui mi chiedeva sempre cosa volessi dire con gli accordi, anche perché spesso i pezzi si facevano in finto inglese, oppure in inglese corretto. Lui chiedeva: “Cosa vuol dire questa cosa?”. Magari aveva un’idea per il testo. Era una grande collaborazione, molto bella e divertente.

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Senti, ma il disco Cosa succede in città come nasce? Lo avevate già scritto prima che lui andasse in carcere?

Dormi Dormi, il pezzo che chiude l’album, è mio musicalmente, l’avevo già scritto. Vasco poi fece il testo. Domani sì, adesso no, che è un bel “roccaccione”, il riff l’abbiamo fatto io e Guido Elmi mentre provavamo a casa di un nostro amico, Giovanni Gatti, poi diventato un po’ il medico di tutti per anni. Poi Ti taglio la gola, Una nuova canzone per lei era una canzone che ci faceva sentire spesso Richie Portera in cassetta già qualche anno prima, ci piaceva molto. Gli altri pezzi non so se fossero già preesistenti; altri sono nati da riff composti e finiti in sala di registrazione, anche perché c’era una bella sfilza di musicisti di alto livello.

Come è andata quando lo hanno arrestato?

Siamo rimasti tutti di merda, assolutamente. Mi ricordo che io lavoravo con Massimo Riva e altri in una radio di Bologna, Bbc Bologna, e quando arrivai un amico disse “hanno arrestato Vasco”. Siamo rimasti tutti male. Eravamo preoccupati, una persona giovane che entra in carcere… si ha sempre timore che possano succedere brutte cose. Eravamo molto molto preoccupati. Per fortuna è stata una cosa breve. Quando è uscito, eravamo tutti molto felici.

Com’era il processo creativo?

Ti dico c’era grande felicità e leggerezza. Quando scrivevo i pezzi, anche dopo, lo chiamavo, allora non c’erano i telefonini, c’era il caro vecchio telefono con la rotella, e dicevo “Vasco, ho fatto un pezzo che mischia un po’ i Police e un po’ i Metallica, vieni subito a sentirlo!”. Lui arrivava. Quel pezzo era Lo show. Parliamo del 1992. Lui quando l’ha sentito ha cominciato subito a scrivere il testo. C’era grande entusiasmo.

L’arresto di Vasco come ha influito sul successo di Cosa succede in città?

Vasco aveva già avuto successo con Vita spericolata, Bollicine e con il live, che come tu sai è stato rimasterizzato e ristampato con brani aggiunti che erano stati registrati ma mai mixati. Poi certo, quando un personaggio va sui giornali, la gente è più curiosa, e forse ha dato una spinta. Ma secondo me non ce n’era bisogno, perché è un disco molto molto bello, con una marea di pezzi di grande levatura.

A distanza di 40 anni da questo grande disco, che è un ritratto di quell’epoca, come credi sia cambiato il modo di fare musica?

C’è stata buona musica in Italia, rock, pop, fusion, fino alla fine degli anni ’90. Poi è cominciato a decadere, con l’elettronica, con tutti i social network. Ci sono dei buoni musicisti, non a caso l’anno scorso un Lucio Corsi, fatto vedere da Carlo Verdone nella sua serie, ha avuto successo, e pur essendo giovane fa la nostra musica, strumenti analogici, canzoni con riff, special musicalmente molto belli. Quindi la gente che ci sa fare esiste ancora, ma purtroppo stiamo assistendo a una massa di personaggi che non dicono niente. È un peccato, perché questo succede soprattutto in Italia. All’estero no, una ragazzina di 13 anni fa musica magari un po’ rappeggiata, un po’ elettronica, però con melodia, tecnica… la musica esiste. Nei paesi del nord, dell’est, negli Stati Uniti, Inghilterra. La Francia è un po’ come l’Italia, molto legata alla dance, all’elettronica, al rap. Secondo me c’è stato un crollo verticale della musica italiana. Non so come si possa fare. La colpa è dei discografici. Non esistono più direttori artistici, figure che seguono. Noi ci abbiamo messo anni ad arrivare al successo di Vita spericolata, anni e anni, ridendo, scherzando, divertendoci, andando in giro a suonare dove capitava. Adesso tutti hanno illuso il pubblico che sia semplice. Ci sono ragazzotti senza arte né parte con dei discografici che li ammaliano dicendo loro che il giorno dopo riempiranno San Siro. Ma chi ci crede? Non c’è più la stesura giusta delle canzoni. Ti faccio un esempio, Joe Perry e Steven Tyler degli Aerosmith hanno collaborato con Yungblud, un bravissimo cantante inglese che si ispira ai grandi ’70-’80. Hanno fatto un Ep con cinque brani bellissimi, primi in classifica negli Usa e in Inghilterra. Quindi la buona musica tradizionale, ma bella, con belle canzoni che mischiano blues, rock, soul, può funzionare. In Italia non è permesso fare cose di livello. Buttano fuori nomi strani mai sentiti, con canzoni che fanno cagare, come si suol dire. Io sono legato a un altro mondo, alla vera musica. È un peccato, perché i grandi, Vasco, altri artisti con carriere quasi cinquantennali, anche i Pooh, continuano ad avere successo. Le canzoni quando sono belle sono belle. Sarebbe bello dare possibilità ai ragazzi bravi.

Tu e Vasco vi sentite spesso?
Ma io sì, ci sentiamo ogni tanto e gli fa molto piacere, perché comunque abbiamo vissuto tanti anni vivendo anche nella stessa casa per un certo periodo, primissimi anni. Per cui insomma, c'è un'amicizia da tanto, dalla frequentazione, dalla radio, dal vivere insieme e da centinaia e centinaia di concerti e di collaborazione dal punto di vista musicale, per cui assolutamente. Poi sai, ad un certo punto può succedere che un artista voglia anche avere dei musicisti diversi. Noi, contemporaneamente al lavorare con Vasco insieme a Guido Elmi, avevamo fondato la Steve Rogers Band, che comunque scriveva le proprie canzoni e faceva i propri dischi. Poi Massimo spingeva molto per fare l’artista solista e per cui arrivò nell'88 il Telegatto come miglior gruppo. C’era anche voglia di affrancarsi, però ti devo dire, io personalmente, quasi tutti gli altri del gruppo avremmo voluto continuare a lavorare con Vasco quando faceva le tournée e fare le nostre tournée quando non c'era il tour di Vasco. Però è andata così e va bene lo stesso. Ho scritto delle bellissime canzoni che sono, come Lo show, Dormi Dormi e altre. Tutti le conoscono e le amano, per cui questa è la cosa più importante. Poi ogni tanto ci si sente, ci si vede, ricordiamo i vecchi tempi, perché noi abbiamo vissuto da veri rocker, però sempre con sorriso sulle labbra, non con tristezza o depressione, sempre in giro con un bel gruppo di ragazze, capito?

Chi è che rimorchiava di più?
Mori, ma ad ogni modo rimorchiavamo tutti, ognuno aveva la sua tipologia. Massimo Riva aveva le ragazzine, perché era più giovane, aveva dieci anni meno di noi. Io avevo un’altra tipologia, Vasco un’altra ancora, ma tutte belle ragazze.

Devono essere stati anni d’oro

Sono stati bei tempi, ci siamo divertiti un bel po’, ma anche adesso ho una mia band, ho un figlio ventenne, quasi ventunenne che è un batterista della Madonna. Incomincia anche lui adesso a suonare con il mio aiuto. Suona spesso con me, già qualcun altro comincia a domandare di lui, per cui, pur avendo vent’anni, ha respirato l’aria che sentiva in casa dei musicisti, i miei amici, che venivano in casa, ascoltava le discussioni. Io non gli ho detto niente, ha fatto tutto lui. Una bella soddisfazione. Però gli dico sempre che deve avere pazienza, perché a vent’anni io, come ripeto in continuazione, suonavo in parrocchia. Ecco, lui ieri sera ha suonato a Milano in una situazione chiaramente un po’ più snob, diciamo, di banchieri che avevano organizzato questa cosa. Abbiamo dormito in un bellissimo hotel, tutto quanto. Alla sua età io dormivo veramente insieme a Mimmo Camporeale, che era il tastierista del gruppo, e a qualcun altro nelle peggiori bettole, e come ci divertivamo! Adesso mio figlio ha una piccola band, si chiamano “Avalon” con dei suoi coetanei e stanno scrivendo i primi pezzi. Ogni tanto vado in sala prove e quindi do loro consigli sul bridge, la struttura, il pezzo se è troppo lungo, se ci sono troppe ripetizioni.

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