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Dopo l'esclusiva di MOW il figlio di Mino Pecorelli chiede la perizia sulla pistola nel tribunale di Milano: “Ora la devono fare per capire se è la stessa che ha ucciso mio padre. In quei giorni stava lavorando su Moro”

  • di Riccardo Canaletti Riccardo Canaletti

5 dicembre 2025

Dopo l'esclusiva di MOW il figlio di Mino Pecorelli chiede la perizia sulla pistola nel tribunale di Milano: “Ora la devono fare per capire se è la stessa che ha ucciso mio padre. In quei giorni stava lavorando su Moro”
In esclusiva su MOW vi abbiamo dato una notizia pesantissima, perché smuove le cose dopo anni di silenzio palese delle istituzioni e del giornalismo italiano. La morte di Mino Pecorelli, il direttore di Op freddato la sera del 20 marzo 1979, è uno dei casi irrisolti intorno ai quali gravitano tanti nomi, tanti gruppi, tante sigle: dai Nar ai servizi segreti, passando per la Banda della Magliana e i pezzi grossi della Prima Repubblica. Ora, grazie al lavoro di Raffaela Fanelli, sappiamo che la pistola che potrebbe aver sparato i quattro proiettili che hanno ucciso Pecorelli si trova al Tribunale di Milano. E ora serve una perizia, che il figlio di Mino, Andrea, sta già preparando. Ne abbiamo parlato con lui

di Riccardo Canaletti Riccardo Canaletti

“Quando papà è morto avevo 15 anni. Ai tempi non avevo la percezione che ho oggi”. È Andrea Pecorelli, il figlio di Mino Pecorelli, a parlare. Suo padre era un giornalista, ha fondato l’Op (Osservatore politico), il settimanale che gli è costato la vita. Perché? Perché la sera del 20 marzo 1979 a Mino Pecorelli sparano quattro colpi di pistola. Mancavano poche ore all’uscita del nuovo numero della sua rivista. Quei colpi di pistola sono stati analizzati e i proiettili sarebbero compatibili con una calibro 7,65. Come quella ritrovata in una Citroën Dyane nel 1995 a Cologno Monzese, insieme a varie altre armi nascoste in un doppiofondo e custodite da Domenico Magnetta, vicino ad Avanguardia Nazionale e a Massimo Carminati, l’uomo che quello stesso anno venne prima processato e poi scagionato dal Tribunale di Perugia, che tuttavia non tenne conto, durante il processo, di questo ritrovamento fondamentale. Perché la pistola non solo sarebbe compatibile con i proiettili che uccisero Pecorelli, ma, potrebbe essere appartenuta a un uomo dei Nar (Nuclei Armati Rivoluzionari), uno dei gruppi che gravitano intorno a questa storia, che per quasi chiunque è iniziata e finita quel 20 marzo 1979. Dopo, per anni, in pochissimi hanno davvero cercato di scavare. Tra questi c’è sicuramente la giornalista Raffaella Fanelli, grazie alla quale nel 2019 hanno riaperto le indagini (chiuse definitivamente nel 2003), e c’è il figlio di Pecorelli, Andrea, che ha riaperto, non senza ostacoli, il giornale di Mino, Op, e che abbiamo intervistato, a proposito di una notizia che abbiamo dato in esclusiva qui su MOW: quella pistola, che ha fatto un po’ il giro d’Italia e si credeva fosse stata distrutta, è al Tribunale di Milano.

Fausto e Lorenzo "Iaio" Iannucci, i due diciottenni del Leoncavallo uccisi a Milano la sera del 18 marzo 1978
Fausto e Lorenzo "Iaio" Iannucci, i due diciottenni del Leoncavallo uccisi a Milano la sera del 18 marzo 1978 Ansa

Raffaella Fanelli ha scoperto che la pistola che potrebbe aver ucciso tuo padre Mino è al Tribunale di Milano. Ti chiedo subito: ora cosa hai intenzione di fare?

Ho riaperto il giornale di mio padre, Op, e ora stiamo cercando di essere molto innovativi nella ricerca di piste per stimolare una magistratura che si è dimostrata estremamente fiacca, soprattutto nell’atteggiamento verso le indagini. Questo è l'unico dato oggettivo, poi ci sono le domande a cui qualcuno dovrà dare delle risposte. Noi andremo fino in fondo per capire chi continua da quarantasei anni a ostacolare la verità.

Chiederete una perizia?

Già ci siamo attivati con i nostri legali per redigere il memoriale, che è composto dall'articolo di Raffaella, dall'articolo che abbiamo pubblicato su Op giovedì 4 dicembre, da tutta una serie di valutazioni interne, più tutta una serie di richieste che abbiamo fatto al pubblico ministero. E chiederemo anche l’esibizione del verbale di distruzione dell’arma, visto che addirittura si è parlato di due documenti diversi, uno del 2013 e uno del 2015, ma entrambi non si trovano.

Quando hai saputo della scoperta di quest’arma cosa hai pensato?

La realtà è che la storia di questa pistola non è completa. Dopo il sequestro del 1995 viene repertata riposta all'interno dell'ufficio del Tribunale di Monza, ma a Monza di colpo questa pistola sparisce. E non esiste né un verbale di distruzione né un verbale di spostamento, né tantomeno una denuncia per lo smarrimento. Nel frattempo la pistola ha fatto un pitstop a Roma, negli uffici della Ucigos, per delle analisi. E ora è stata ritrovata a Milano, dove un giudice avrebbe voluto confrontarla con i reperti dell’omicidio di Fausto a Iaio. Ma dopo queste analisi, l’arma sarebbe dovuta tornare per competenza al tribunale di Monza, e invece no. Perché? Io penso che sia un esempio di come funzionava Prima Repubblica: fammi un favore, chiudiamo un occhio e poi rimettiamo tutto a posto. Insomma, questa pistola non dovrebbe essere a Milano.

Com’è possibile che nessuno, in questi anni, si sia fatto le domande giuste su quest’arma?

Hanno una di pistola col silenziatore e in trent’anni non c'è stato un giudice che abbia deciso di studiare questa pistola? No, addirittura è finita a Roma per essere comparata con un altro delitto, è finita a Milano per essere comparata per un altro duplice omicidio, ma per l'omicidio per il quale viene indicata, niente. Questo Paese ci ha insegnato che se certe cose non vengono fatte è perché c’è un motivo per non farle. E uno dei motivi potrebbe essere che o i mandanti o gli esecutori siano ancora vivi.

Credi che il caso di tuo padre si risolverà?

Non lo so, a me basta che qualcuno mi dica la verità. Possono anche incappucciarmi e portarmi in un luogo che il giorno dopo non ci sarà più. Possono tenere nascosti i nomi degli esecutori, di chi ha sparato a mio padre. Ma io voglio sapere chi sono stati i mandanti, chi c’era veramente dietro.

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Andrea Pecorelli

A cosa stava lavorando tuo padre quando è stato ucciso?

Lui era un barattatore di notizie. Carpiva da te la notizia basica per poi rivenderla a quello che era parte interessata di questa notizia e averne più importante. E quindi aveva la possibilità nell'arco di una giornata di apprendere da tutte le sue fonti una serie di notizie che partivano dalla A e finivano alla Z. Quindi a cosa stesse lavorando? A tutto e a niente, come sempre. Noi siamo stati indottrinati da quello che ci ha raccontato il mainstream e dagli investigatori dell'epoca, ma la realtà è che la pista su Andreotti, del fascicolo di Andreotti, è infondata. Perché Giulio Andreotti, che io ho avuto il piacere di conoscere durante le udienze del processo a Perugia, aveva centomila modi diversi di mettere a tacere Mino Pecorelli o un giornalista come Mino Pecorelli, senza necessariamente arrivare a ucciderlo. E poi lui e mio padre si scrivevano, non c’era motivo di ucciderlo.

E allora come andò secondo te?

Il nostro scenario di guerra, se così lo vogliamo definire, è estremamente chiaro. Credo che la morte di mio padre sia strettamente legata alla scomparsa del memoriale Moro e quindi con la conseguente uccisione anche del povero generale della Chiesa. Che ci sia una confluenza di interessi per arrivare a tacitare chi sapeva troppo e parlava ancora di più. Tra Stato, mafia, servizi deviati, eversione di destra, Brigate rosse, mercenari vari, ne abbiamo di ogni. Secondo me il memoriale di Moro in qualche modo è finito dalle mani di mio padre. Che lo ha consegnato a Dalla Chiesa.

In tutti questi anni, dalla morte di tuo padre a oggi, o almeno dalla riapertura delle indagini nel 2019, c’è stato qualche politico che ti ha appoggiato, che ti ha ascoltato o almeno ti ha espresso solidarietà?

STOCAZZO!

Mino Pecorelli
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