Chi ha sparato a Carmine “Mino” Pecorelli ancora non si sa. L’omicidio, nonostante le piste e le ipotesi aperte nel corso di anni, resta irrisolto. Quattro colpi di pistola, di cui uno in bocca. Il suo corpo venne trovato a bordo della sua auto, parcheggiata poco lontano dalla redazione dell’Osservatore politico. Era il 21 marzo 1979. Su cosa stava lavorando il giornalista? I fronti aperti erano molti: Pecorelli conosceva bene le dinamiche del potere politico, sapeva muoversi con i servizi segreti, molti credevano che avesse contatti stretti con i reparti meno appariscenti dello Stato, pare avesse informazioni su finanziamenti esteri, soldi della Cia “investiti” in Italia. Anni in cui si gioca il destino politico di un Paese, dove organizzazioni neofasciste, poteri occulti dello Stato e malavita si mescolano. Ma chi era Mino Pecorelli? E perché ne parliamo ancora oggi?
Pecorelli nasce in Molise, ma si trasferisce presto a Roma. Grazie ai suoi studi in giurisprudenza si avvicina ad ambienti legati alla Democrazia Cristiana. Comincia come addetto stampa, entra nei salotti della politica. Un’esperienza preziosa, che gli permetterà fin da subito di comprendere le dinamiche del potere e di come ci si deve muovere in quelle stanze. Poi diventa giornalista, entra nella redazione del periodico Nuovo Mondo d’Oggi, pubblica i primi scoop e di lui si inizia a vociferare di rapporti con persone dei servizi, grazie alle quali porta a casa notizie di prima mano. Nel 1968 fonda OP, l’Osservatore politico: si occupa di dossier complessi, riguardanti militari, politici, ingranaggi fondamentali del sistema Stato. Viene letto da tutti coloro che vogliono essere informati su ciò che accadeva nella cupola del potere. Notizie e informazioni anche al confine con il ricatto. Pecorelli si guadagna anche le antipatie di molti, accusato di contribuire allo squilibrio democratico più che alla libera informazione.
Tra coloro che vennero più “colpiti” dalle rivelazioni di Pecorelli ci fu sicuramente Giulio Andreotti, “Il Divo”. Dopo il rapimento di Aldo Moro, infatti, fu il fondatore di Op che pubblicò le lettere censurate presumibilmente dai vertici della Dc. In una delle ultime, tra le più dure, Pecorelli si riferiva tra le righe proprio ad Andreotti. Nel 1999 il Divo viene rinviato a giudizio come mandante dell’omicidio del giornalista. Le ragioni dell'accusa sono chiare: Andreotti temeva la pubblicazione delle lettere integrali e per questo ha fatto uccidere Pecorelli. A processo vengono giudicati anche Massimo Carminati della Banda della Magliana e il boss di Cosa Nostra Pippo Calò. Andreotti viene assolto nel 2004 in Cassazione per insufficienza di prove, dopo che in Appello era arrivata la condanna all’ergastolo. L’eredità di Pecorelli è costellata di periodi ipotetici. Cosa sarebbe rimasto dell’élite di questo Paese se avesse continuato a pubblicare quelle lettere? Come sarebbe cambiata la fisionomia dell’Italia se le inchieste dell’Op su Licio Gelli e la P2, l’organizzazione Gladio, il caso Lockheed, il golpe Borghese? E che spostamenti avrebbe subito il nostro posto nello scacchiere geopolitico di quegli anni? Cosa aveva scoperto Pecorelli sul rapporto tra la mafia e lo Stato italiano?
Domande a cui una pistola calibro 7.65 ha negato una risposta. Quel 21 marzo 1979 vennero esplosi quattro proiettili marca Gevelot, azienda francese. Sono proiettili rari, in dotazione alle forze armate e alla Nato. Tre hanno colpito Pecorelli alla schiena, uno alla gola. Non ci sono segni di lotta. Chi ha sparato era in grado di prevedere gli spostamenti di Pecorelli. Forse addirittura lo conosceva? L’eredità, in termini di documenti e fascicoli, di Mino Pecorelli è scarna: il suo archivio scomparve poco dopo l’omicidio. Un altro tipo di eredità, invece, è ancora diffusa e continua a vivere. Pecorelli faceva il giornalista: dava notizie difficili da accettare per chi governava il Paese in quegli anni. Un cane da guardia del potere.
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La pistola che ha ucciso Mino Pecorelli è nel tribunale di Milano?