Chi ha ucciso Chiara Poggi? E’ la domanda semplice che ci facciamo tutti. Ma potrebbe non essere la sola domanda che si sono fatti a Pavia dopo la riapertura del caso e le nuove indagini avviate con – per ora (ma ci saranno sorprese) – il solo Andrea Sempio sul registro degli indagati. Quell’inchiesta, inutile girarci intorno o fare finta che non l’abbiano capito anche i muri, è uno specchio che riflette molto più della necessità di risolvere un caso rimasto, di fatto, non totalmente risolto per 18 anni: riflette un’intera stagione di opacità. Relazioni trasversali. Decisioni controverse. Affari. Politica. E tensioni che, per anni, hanno attraversato il Pavese e gli ambienti che lì interagivano. Un contesto che oggi emerge con una forza quasi dirompente, man mano che il nuovo procuratore, Fabio Napoleone (la cui ex moglie, la pm Laura Siani, è morta per uno strano suicidio mentre indagava sulle commistioni tra colletti bianchi e criminalità organizzata), stringe il perimetro delle sue verifiche intorno al caso Garlasco e ai suoi filoni collaterali. Restituendo un’impressione agghiacciante a chi, come tutti noi, sta dalla parte di chi osserva: scoprire chi ha ucciso davvero Chiara Poggi potrebbe portare a scoprire qualcosa di enorme. Ma enorme davvero. Ecco perché alcuni dei fatti avvenuti negli ultimi mesi – compresa una prima richiesta respinta di spostare le indagini sull’omicidio Poggi direttamente a Brescia – fanno avvertire un po’ d’odore strano persino sotto il naso di chi conosce bene i vari formalismi processuali. Il nodo, qui, rischia di essere molto più profondo.
Una cosa, per il dovuto rispetto alla Giurisprudenza, bisogna dirla: l’indagine di Napoleone è un po’ al limite rispetto alle norme, visto che riguarda un caso per cui c’è già un condannato – con condanna passata in giudicato – e che, proprio secondo la sentenza definitiva, avrebbe agito da solo nell’efferato omicidio di Chiara. Indagare oggi qualcun altro in concorso significa, di fatto, smentire la sentenza prima di una revisione. Non rispettarla. O comunque andare oltre. Sia inteso, davanti alla verità, o anche solo ai doveri morali, la Giurisprudenza può pure fare un passo indietro. Ma poi, nelle sedi processuali o comunque nelle aule delle decisioni, i formalismi avranno un peso che oggi non si può non considerare. E’ una premessa doverosa – anche se fastidiosa – per provare a capire quello che sta succedendo. E, anzi, per spiegare un miserabile sospetto: non sarà che si sta preparando un trappolone per Fabio Napoleone? Non il pettine avvelenato che toccò al Napoleone più famoso, ma qualcosa di “giurisprudenzialmente “ molto simile a una messa a dimora su un isolotto.
L’avvocato Domenico Aiello - difensore dell’ex procuratore aggiunto Mario Venditti, oggi indagato a Brescia per corruzione nell’ipotesi di aver favorito, nel 2017, l’archiviazione della posizione di Andrea Sempio - intervenendo più volte in televisione, anche se con toni e termini differenti a distanza di un paio di giorni -, ha parlato di “farsa”, accusando apertamente Napoleone di “violare il giudicato in ogni forma”. Uno scontro, il suo, che è apparso subito come qualcosa di più di un confronto tecnico: il tentativo di rimettere in discussione la legittimità stessa dell’indagine condotta da Pavia. Quasi a volerla delegittimare prima che si arrivi a un punto di non ritorno? “Si sta indagando due volte Stasi – ha detto - si sta creando un sistema parallelo, si travalicano le regole del giudicato”. E su un punto Aiello ha insistito con particolare veemenza: un colloquio dai contenuti segretissimi fra l’avvocato De Rensis, difensore di Stasi, e il procuratore Napoleone. Il tema, in sé, non sarebbe rilevante se non fosse stato trasformato dall’avvocato in un insinuante interrogativo pubblico, quasi un’ombra gettata sulle intenzioni della procura pavese.
De Rensis, dal canto suo, ha reagito in maniera dura: “Stavolta non si passa in cavalleria”. Una frase sibillina per annunciare una qualche querela? Oppure per segnalare che, nella nuova procura, certi metodi non appartengono più alla prassi. Una puntualizzazione che, indirettamente, allude a un clima passato ben diverso. E è proprio qui che rispunta il tema del “sistema Pavia”. Chi oggi si oppone alla permanenza dell’inchiesta sotto la guida di Napoleone fa leva su cavilli, norme di competenza territoriale, ipotesi di “connessione” con il procedimento bresciano contro Venditti. Aiello, infatti, ha già chiesto che tutto – l’indagine sul delitto Poggi compresa – venga trasferito a Brescia. Ma la prima richiesta è stata ritenuta inammissibile, perché presentata da chi non ha titolo per farlo e perché la connessione fra i procedimenti non regge giuridicamente. Detto in parole semplici: la corruzione ipotizzata non sarebbe stata finalizzata a occultare un omicidio, ma – semmai – ad assicurare un’archiviazione. Tra l’altro pure Venditti, ai tempi dell’archiviazione, indagò su Sempio quando la sentenza di condanna di Stasi era già passata in giudicato.
Da qui il sospetto che il tema possa essere, più della giurisprudenza, una messa in discussione di Fabio Napoleone. Un altro indizio arriva – in qualche modo - dalla decisione dell’avvocato Gian Luigi Tizzoni, già legale della famiglia di Chiara Poggi (sempre più in prima linea, francamente in maniera poco comprensibile, per ribadire in ogni modo e in ogni dove che Stasi è l’unico colpevole), che da poche settimane ha rinunciato alla difesa dell’ex maresciallo Antonio Scoppetta, coinvolto nell’indagine per corruzione portata avanti dalla procura di Brescia, per “motivi di opportunità professionale”. Nessuna accusa verso il suo ex assistito, anzi: Tizzoni ha ribadito l’estraneità di Scoppetta a tutto ciò che riguarda l’omicidio di Chiara Poggi, spiegando che il suo ruolo fu limitato alle operazioni tecniche di intercettazione nella vettura di Sempio. Ma è significativo che un difensore così esperto preferisca sfilarsi proprio ora. E’ un segnale. Oppure è un modo per non trovarsi in un doppio ruolo, scomodo e non consentito, laddove le indagini sull’Omicidio di Chiara Poggi e quella per corruzione dovessero essere riunite a Brescia?
La considerazione triste è che in tutto questo Chiara Poggi sembra non essere più la giovane vittima di un tremendo omicidio, ma un grimaldello per altro. Pavia in quegli anni (vedasi “inchiesta Infinito”) era “la provincia tranquilla dove accadeva di tutto”, tra affari intrecciati, avvocati tributaristi finiti in galera per Ndrangheta, sacerdoti coi vizietti, logge massoniche che proliferavano come ammesso pure dal Grande Oriente d’Italia. Emerge nei nervosismi. Emerge nelle partigianerie assurde dei salotti televisivi. Emerge dai toni degli articoli delle varie testate a seconda degli orientamenti editoriali. E emerge soprattutto nel modo in cui alcune parti cercano di rallentare, delimitare, ridimensionare l’impatto del delitto di Garlasco. E di una nuova inchiesta che, al di là del merito e degli eventuali sviluppi processuali, ha già incrinato equilibri. Non significa, sia inteso, che se davvero si tornerà alla carica per “portare tutto sotto Brescia” sarà perché lì risulterebbe più facile insabbiare, ammorbidire o far calare una coltre. Non ci passa neanche per l’anticamera del cervello di fare una affermazione così. Significa solo, eventualmente, che c’è una parte secondo cui a Brescia tutto potrebbe essere meno personale. Che è ben diverso. Ma la domanda resta: perché?