Un po’ We Live in Times, un po’ One Day, Bianca come il latte rossa come il sangue e poi molto altro ancora, prima, dopo, intorno a loro. Semplicemente, Il mio anno a Oxford. Un film che parla d’amore, certo, ma anche di perdita, scoperta, crescita. Al centro della storia c’è Ella Durran, interpretata da Sofia Carson, una studentessa americana che ottiene una prestigiosa borsa di studio per frequentare uno degli storici college dell’Università di Oxford. Tratto dal romanzo di Julia Whelan del 2018, il film Netflix si muove tra le pieghe di una storia che mescola la leggerezza dei primi amori con il peso di ciò che potrebbe non essere più. I sentimenti, le idee. Ella sa cosa vuole, brillante, un po’ idealista, come lo sono in fondo tutti quelli che si innamorano davvero per la prima volta. E a farla impazzire d'amore è Jamie Davenport, interpretato da Corey Mylchreest misterioso e terribilmente tormentato. Una chimica che tiene insieme il racconto, anche quando la sceneggiatura inciampa - parecchio - in frasi fatte e massime motivazionali che sembrano uscite direttamente da una collezione di post Instagram. Cosa fare quando tutto d'un tratto termina di essere possibile? Questa la vera domanda da farsi.
“Se non sai piangere, il dolore non ha forma”, si dice a un certo punto nel film. Ed è forse questa la frase che meglio sintetizza la seconda metà della storia, in cui le lacrime diventano quasi un elemento atmosferico, parte integrante del paesaggio. Una terra umida, bagnata, fradicia di sentimenti. Eppure, Il mio anno a Oxford resta un film che si guarda volentieri. Non perché sia perfetto, non lo è, ma perché riesce comunque a toccare corde reali, soprattutto grazie alla prova intensa di Mylchreest, che dona profondità a un personaggio altrimenti prevedibile. È un film figlio dell’algoritmo? Forse sì. Un altro racconto modellato per piacere a un pubblico che ha già amato storie simili, così pare. Ma anche se riconosciamo la struttura, anche se intuiamo il finale molto, ma molto prima che arrivi, qualcosa ci spinge a restare lì, a guardare, a sentire. Forse è quella delicatezza di fondo, quel pudore emotivo che raramente si concede al sentimentalismo da manuale. Una storia come tante sì, eppure alla fine non uguale identica a tutte. Simile. Una parentesi breve, senza il tempo di un diario a raccontarla, eppure così intensa da sembrare infinita. Forse, semplicemente, perché l’amore, anche quando passa, dovrebbe sempre essere possibile, anche se l'abbiamo l'abbiamo vissuto o visto migliaia di altre volte.
