La voglia di scrivere era finita, da un po’, ma era rimasta l’immaginazione. Come nei film di Fellini, al Cinema Troisi di Roma, una luce offuscata, i corridoi pieni di studenti, ragazzi a fare avanti e indietro per le scale ripassando un esame che forse sarà anche l’ultimo. Una luce in una stanza piccola, in quell’ufficio, per dieci minuti, i problemi sono rimasti fuori dalla porta. Dentro c’era una parte del cinema americano, fuori, a Roma, il caldo e l’inferno della testa. Un essere umano, così ci è parso: Mark Ruffalo. Anche se già lo avevamo intuito. Dalla sua presa di posizione in tema di lotta per i diritti delle persone, dalle sue parole sulla salute mentale. Questo è Mark Ruffalo. Un uomo che ha paura come tutti ma che, come pochi, ha cura. Di parlare, di farsi sentire. E poi sì, Ruffalo è anche l’attore di Avengers, Foxcatcher, Tutto può cambiare, 30 anni in un secondo. Com'è stato il nostro incontro? Come un anno di riposo e di oblio, il titolo del libro di Ottessa Moshfegh. Qui, al Troisi sono stati dieci minuti di riposo e di oblio autoimposto. Ad ascoltare e basta, silenziare il telefono, guardare dritto negli occhi lucidi una persona per capire cosa significa, per lui, potere. Chiederlo all'attore che ha interpretato in questi anni, tra gli altri, anche il ruolo di un dittatore (Mickey 17), un uomo odioso (Poor Things). “Personaggi che sono incredibilmente tossici e fallibili, non sono bravi né a usare né a mantenere il potere”. In tutto questo disordine, gli abbiamo anche chiesto se il genere fantascientifico possa essere l’unico capace di analizzare e capire il presente. “Molti di quei film parlano di eroi e di persone che fanno cose straordinarie. Forse anche noi conosciamo già il finale, come nei film. Forse è un lieto fine, ma quando si è nella lotta, non si sa mai quale sarà il finale. Parte dell’essere nella lotta è proprio il non sapere come andrà a finire”. E poi, è arrivato il momento di citare Federico Fellini. Il suo immaginario artigianalmente costruito. Con una macchina da presa, aveva scritto l’Italia che ancora si cercava dopo la guerra. Nostalgica come Amarcord (che abbiamo visto grazie al Cinema in Piazza de Il Piccolo America), frastagliata come 8½, l’Italia romantica di Fontana di Trevi, la notte. Con Mark Ruffalo abbiamo parlato di questo, dell’intelligenza artificiale, delle piattaforme e molto altro. Per dieci minuti, ci siamo fatti spiegare il mondo da chi sembra averlo capito meglio di noi. Ed è stato bellissimo.

Mark Ruffalo. Cominciamo dalla fine. Interpreti Duncan Wedderburn in Poor Things di Yorgos Lanthimos e Kenneth Marshall in Mickey 17. Un latin lover possessivo e tossico nei confronti di una donna, convinto di poterla davvero possedere, un dittatore pazzo nel film di Bong Joon-ho. Due personaggi molto diversi ma accomunati dalla fame del potere. Verso una donna, verso l’umanità. Qual è il tuo rapporto personale con il potere?
Questa è davvero una bella domanda. Il potere è una cosa, può essere usato per il bene e per il male. Nel contesto in cui hai inquadrato la domanda, ovviamente viene usato per l’oppressione. È interessante che tu l’abbia inquadrata in termini di dominazione del femminile, perché è qualcosa che purtroppo penso stia accadendo, ed è accaduto per molto tempo. Stiamo assistendo a una lotta per un equilibrio, per l’uguaglianza. E non è solo una questione maschio-femmina, ma anche di come il potere viene distribuito e usato. C’è un modo femminile, che è molto più egualitario, condiviso, in equilibrio con la natura, sensibile. E poi c’è un altro tipo di potere che si basa principalmente sulla violenza e la dominazione, che ha portato l’umanità molto lontano. Ora siamo in un momento in cui forse non abbiamo più bisogno di quel tipo di potere. Sì, i personaggi di cui parli, Duncan e Kenneth, sono entrambi incredibilmente tossici e fallibili, non sono bravi né a usare né a mantenere il potere. Sono entrambi incompetenti e alla fine cadono, falliscono, come ogni modello di quel tipo di potere.
Hai recitato in diversi film di fantascienza, in tempi incerti come quelli che stiamo vivendo fatti di guerra, lotta per i diritti, fatica, è forse questo il genere cinematografico migliore per inquadrare e analizzare il presente?
Molti di quei film parlano di eroi e di persone che fanno cose straordinarie, in tempi straordinari, con un finale felice. E forse conosciamo già anche noi il finale, come nei film. Forse è un lieto fine, ma quando si è nella lotta, non si sa mai quale sarà effettivamente. Parte dell’essere nella lotta è proprio il non sapere come andrà a finire. Noi abbiamo l’opportunità di essere la migliore versione di noi stessi, o la peggiore. Ma sappiamo sempre chi sono i “cattivi”. Collettivamente, quando guardiamo un film, li riconosciamo. A volte siamo confusi su chi sia, ma alla fine diventa chiaro. E penso che anche in questi tempi, come in ogni altro periodo della storia umana, sapremo chi erano i cattivi, sapremo cosa era giusto alla fine. E continueremo ad andare verso una maggiore giustizia e uguaglianza, anche se a volte facciamo dei passi indietro. Martin Luther King diceva: “L’arco morale dell’universo è lungo, ma tende verso la giustizia.” Abbiamo molte sfide, ma sento anche che abbiamo tante opportunità. E abbiamo molte delle risposte. Bisogna chiedersi: come le userà l’umanità? Le useremo per tutti o solo per pochi? Ed è la domanda che aleggia nell’aria in questo momento.
Sei a Roma. Hai presentato al Cinema in piazza (Piccolo America) Amarcord di Fellini e in passato hai dichiarato che tra i tuoi film preferiti ce ne sono diversi del Maestro di 81/2, in un periodo in cui siamo ossessionati da intelligenza artificiale e algoritmi, cosa dovremo davvero recuperare dal cinema di Federico Fellini?
Quello che Fellini ha aperto al mondo, credo sia proprio l’idea dell’immaginazione nel fare cinema, con l’uso dei sogni e dell’inconscio collettivo. Ha davvero attinto alla fonte della nostra creatività e immaginazione. E ha trovato la chiave tra realismo e surrealismo in senso narrativo, usando l’immaginazione della vita onirica in questo senso, dove non è solo surrealismo visivo, ma un modo per raccontare un’altra storia. Quello sarà sempre necessario, non puoi crearlo artificialmente. Dovremo sempre rimanere ancorati all’idea di ciò che ci rende umani e a ciò che sogniamo collettivamente. Non credo che potremo mai sostituirlo del tutto artificialmente, ma dovremo competere con esso. Alla fine, penso che si ridurrà la cosa a una questione di sentimento. Cosa ci fa sentire umani? Potremmo perdere la capacità di distinguere. Resta da vedere. Non lo so, non ho idea. Posso solo sperare che ciò che Fellini e ogni altro regista e narratore ha scoperto da allora rimanga nella conversazione umana. Non riesco a immaginare che saremo completamente sostituiti.
