Ventidue anni dopo 28 Giorni Dopo, Danny Boyle torna dietro la macchina da presa per riportarci nell’incubo che aveva segnato un’intera generazione di spettatori. 28 Anni Dopo è il terzo capitolo della saga iniziata nel 2002 con quel folgorante e atipico film post-apocalittico, ma anche l’inizio di una nuova trilogia. E proprio qui sta, a mio avviso, il suo difetto più grande. Affrontiamolo subito: il film funziona, ma è intrappolato in quel meccanismo ormai inevitabile in cui tutto dev’essere saga, universo narrativo, progetto a lungo termine. Sarebbe stato meglio che 28 Anni Dopo fosse un racconto chiuso, un one-shot potente come lo fu il primo. Invece no: anche qui, come ovunque oggi, si sceglie di espandere, diluire, proiettare nel futuro qualcosa che sarebbe stato perfetto nella sua compattezza. Eppure, per quanto questo mi infastidisca, il film riesce comunque a essere straordinariamente riuscito. Boyle non torna solo per incassare la nostalgia, ma per continuare un discorso. Se 28 Giorni Dopo era un film che raccontava la perdita dell’umanità — nel senso più profondo, più brutale — 28 Anni Dopo tenta l’operazione contraria: il ritrovamento. Siamo a Lindisfarne, un’isola sacra e isolata dal mondo grazie all’alta marea. Qui vive una piccola comunità di sopravvissuti, autosufficiente, apparentemente al sicuro. Ma quando uno di loro lascia l’isola per una missione sulla terraferma, scopriamo che l’Inghilterra non è solo un paese devastato: è un continente psicologico, pieno di segreti, mutazioni, nuove forme di convivenza e nuovi orrori. Gli infetti non sono scomparsi, ma nemmeno sono più solo “infetti”. L’evoluzione biologica e sociale ha generato qualcosa di diverso, e l’uomo stesso, nel sopravvivere, è cambiato. Ma quello che colpisce è che 28 Anni Dopo non è un film sul virus. L’elemento “survival horror” è lo sfondo, non il centro. Come nel primo film, anche qui la vera riflessione riguarda l’essere umano. I rapporti, la fiducia, la fragilità, il desiderio di riscatto. C’è una dolcezza sottile, quasi nascosta, che emerge nel corso del film e che commuove senza mai cedere al melodramma. Boyle e Garland (che torna alla sceneggiatura con una maturità notevole) affrontano le tematiche con originalità e misura, e riescono a costruire un’opera emotivamente potente senza cadere nel facile sentimentalismo. Il ritmo del film è volutamente irregolare. Si salta da momenti lenti e intimi a scene concitate e surreali, ma tutto resta coerente. Non è un film prevedibile, anzi. A tratti sembra spiazzare lo spettatore, cambiando tono o direzione, ma lo fa con una consapevolezza stilistica che lo rende sempre interessante. E questa libertà narrativa è uno dei suoi maggiori pregi: 28 Anni Dopo non è mai prigioniero delle sue regole di genere, né dei cliché del post-apocalittico.

Uno degli elementi più sorprendenti del film è la fotografia. Anthony Dod Mantle (Dogville, Julien Donkey-Boy), già responsabile del look iconico del primo film, torna alla direzione della fotografia e alza l’asticella in modo radicale. Se 28 Giorni Dopo era stato rivoluzionario per l’uso pionieristico della Canon XL1, qui siamo di fronte a una nuova sperimentazione visiva: il film è stato girato in larga parte con iPhone 15 Pro Max, spesso utilizzati a catena per creare effetti straniti e prospettive multiple. Il risultato è un linguaggio visivo ipnotico, fatto di filtri rossi, immagini bruciate, luci al neon e inquadrature deformate. Qui la fotografia è diversa, attuale, viva, eppure animata dallo stesso spirito di ricerca e sperimentazione. Alcune scene sembrano davvero provenire dal mondo della videoarte più che da un blockbuster horror. Una scelta rischiosa, ma vincente. A completare questa esperienza sensoriale c’è una colonna sonora perfettamente integrata e moderna. I Young Feathers firmano un lavoro sonoro che si muove tra suggestioni urban ed elettroniche, alternando atmosfere rarefatte a ritmi serrati. Nei momenti più concitati del film, la musica incalza senza invadere, sostiene l’azione con bassi pulsanti e pattern sintetici che rendono la tensione ancora più fisica, mentre nei passaggi più intimi la colonna sonora si fa minimale, malinconica, quasi impercettibile. È un sound design studiato al millimetro, capace di dialogare col montaggio e con la fotografia, contribuendo in modo decisivo alla costruzione del mondo emotivo del film. 28 Anni Dopo è cinema vivo. È un horror che ha il coraggio di essere fragile, sporco, poetico. È un film che riesce a parlare dell’orrore senza dimenticare la bellezza, e della morte senza dimenticare la possibilità di rinascere. Forse non sarà il film chiuso e definitivo che speravamo. Ma è, comunque, un film stupendo. E in tempi come questi, è già molto.

