La vita la attraversava. La vita era fuori come sempre. Il sole bianco si dirigeva nelle tempere più consolanti del tramonto. Ocra ovunque e la memoria si tingeva di infanzia.
Era la voce fuori campo. La terza persona che occorreva per osservarmi, non con la presa clemente come in una pagina di diario, ma astretta e avulsa nella sola dedizione dell’indiscernimento. Non sapere chi fossi, quali connotati mostrasse il mio volto. E il mio corpo scarno, allucinato negli spigoli, ostili al piacere, dimorava in me, l’ospite estraneo, preveduto per caso, in questi incastrato, nell’unica possibilità claustrofobica.
La dedizione mi rendeva sola, oltremodo, incomparabilmente, e gli avverbi sono lance infuocate che perorano la causa dell’indefessa, colei che scrive, l’imperscrutabile individuo con in testa alcune passioni. Ad esempio: una retorica accesa dagli incontri, con esiti infelici. La salvezza sarebbe tornata a interrogarmi, simile al vento, ammantata di innocenza, mi avrebbe proposto l’imperfezione di una pulsione, un amore forse, perché no. Restituiva ad ogni modo i chiodi e il legno dello scandalo, lo avrebbe fatto di nuovo. La croce.
O forse io ero l’ostia?
Volevi questo da me? Chiedo e guardo su, sopra l’altarino. Il Figlio dell’Uomo. In ogni chiesa, odo la mia medesima supplica, si moltiplica, sparisce nel silenzio, inondata da zefiri di incenso.
Ero l’ostia. E ritorno pedante agli anni del terrore, sette anni. Il dolore biblico ma intraducibile. Non lo conoscevo, non lo avevo appreso ancora, finche non lo riconobbi nelle Sacre Scritture, letture da adulta, già provata col fuoco.
I sette anni biblici contati segretamente, nella clessidra dell’Eterno. Non lo conoscevo, non ricordo se lo invocassi, gemito che sfugge nella tribolazione persino all’ateo più severo. Non ricordo. Ero l’ostia nella mia carne tiepida e fremente di purezza. Ripercorro lo stesso sentiero. Sono una che scrive, ricordate? Significa che esiste un cappio a cui lascio che una certa ferita, o un certo tentativo irragionevole di pacificare il torto con il sacrificio, si fissi. Ero l’ostia per il moribondo, per colui che la morte morale aveva investito di inanità. Sto provando a ricucire la stoffa lacerata. È davvero impossibile. Ma lo sto facendo.
L’inanità era il grammo di ero con cui voleva ammazzarsi, costui.
Costui non ha un nome. Ha un nome che non risuona. Non dice. Non evoca. Moribondo. Individui, sguarniti di una qualche condizione dello spirito. Era scuro e ignorante. Scuro di capelli, la pelle olivastra di un arabo. Il sacrificio per intero fu lasciarsi divorare dalla brutalità dell’altro, che avrei voluto salvare. E la necessità che era insita nelle mie segrete diventava una colpa, prima ancora che una responsabilità, perché non smettessi di patire, consumata, fino al giorno stabilito. La vita smise subito per me i suoi vaghi allettamenti, le esche luccicanti, smise subito.
Avevo diciassette anni.
La frase ripete sé stessa, in ogni scritto. La querimonia è arrivata fino ad oggi, con alcune variazioni sul tema. Resta l’assillo della salvezza, l’amore in seconda istanza. Il tossico della stagione infame, del peccato che non lede, ma che intende rifiorire, gigli su dune deserte, decenni dopo, non era l’amore, malgrado rappresentasse una via per l’assillo di cui sopra. La salvezza.
Era un giovane vinto, terreo. Le braccia nodose e con le vene marce o sollevate per i buchi sulla pelle.
La mostruosità, l’impurità volgare non immacolata, non elevata a pentimento, a pudore o virtù.
Ma io ero un’ostia, è così?
(continua)
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