Il sole era bianco e malato, oltre i vetri tintinnava calore morente, come gocciole di distanze e disperazioni urtava contro gli scuri, miracolosamente congiunte, edificate, maneggiate da mani invisibili. La camera d’albergo imitava il medesimo stanco splendore, rifrangeva sulle le pareti e sulle lenzuola stirate. Ed ero in una età, eccola soggiunta. La mia età, la stagione perduta che replica nel significato remoto di errori sopra errori, mai tradotti nell’inciampo sublime e nitido, evangelicamente lo scarto che diventa la pietra d’angolo. L’errore. O la stagione perduta. La salvezza era un pensiero che si schiantava sui fatti a mo’ di epigono, finanche un assillo che si era presentato con tutta la baldanza negli ultimi anni, restituendo in linea di massima un’ossessione. La salvezza in quanto fattore imprescindibile giacché prossimo ad una qualche fortuita destinazione, ma appunto destinazione, la ragione di un’attesa, lo scambio tremebondo tra due individui, l’azione pulsante tale da giustificare l’umanità intera, la stoltezza, la ferocia, una insolenza conformata a specie di orgoglio, inutili, fuochi fatui. Potrei essere stata uno strumento, della salvezza intendo, mettermi di traverso, mio malgrado, nelle vicende altrui, tra la vita e l’altro. E di entrambi non averne ugualmente una opinione, o ancor meglio: una grande opinione.
Sono una scrittrice, lo dico sulla soglia del mezzo secolo, non ne ho più vergogna ad asserirlo, lo scudo ad eventuali stupidità, compiute sempre nel nome di una questione esorbitante, quasi un suffisso a ogni accadimento.
La salvezza, c’è lei, o Colui che la soffia dalle volte celesti, nascosto da nembi o da sontuosi arcobaleni. L’uno per l’altro. Ed io l’altro l’avrei trovato certo, mai definitivamente, per me e solo per me. D’altronde, sono una che scrive, la solitudine si conficca tra me, la faccenda detta vita e l’altro o spettro irradiante, o uomo, o qualunque cosa. O amore, persino sì. Perché la salvezza lo avrebbe contemplato.
L’albergo della Garbatella. Il romanesco che tuonava d’un tratto fuori, sulle strade, tra un canto e una trattoria, nel pomeriggio torrido, mi intristiva o svuotava, ribadiva la mia estraneità e una animosità, una vivacità caciarona di cui sconoscevo i preamboli, l’origine. L’estraneità è la prossimità allo spaesamento, induce a una gran sete. Talvolta sembra una sete mistica e mi costringe dinanzi ad un altare o a sedermi sull’ultima panca di una chiesa con riferimenti neoclassici o barocchi, e in special modo al bisogno di incenso, o di tacere, e le due cose sono la stessa sostanza, inafferrabile. La solitudine accompagnava la scrittrice, ogni stanza d’albergo era una sferza di inadeguatezza, la rimandava precisa, ogni volta. Il letto a due piazze, le lenzuola profumate di igienizzanti dozzinali. Impersonale e desolante. Il sommario di quel che mi atteneva, certo la solita questione della vita, che non sapevo riconoscere, distante, separata da una pellicola, non era cinismo, o scaltrezza, era non conformità, mi rendeva falsamente mite, docile all’apparenza.
E in fondo cercavo l’altro, la salvezza. La salvezza che incuneava altre disparità. Poi l’avrei incontrato l’altro. Sarei stata la messaggera di parole capaci di guarire, la parola era la benda, la benda che poggiavo sulla colpa dell’altro. Come se non ne avessi anch’io da devolvere. Tutto da trasformare, mi agitavo o esultavo; febbrile e sicura che nel nome di Colui tutto era salvezza, tutto era perdono.
E la solitudine e il resto, e il tuo compleanno sulla soglia del mezzo secolo e la stagione perduta?
Lo avrei incontrato l’altro, ma doveva cadere prima, mostrarsi derelitto, perdere, perdere, nella condizione estrema e ultima lo avrei incontrato. Per poi chiamarlo amore, e poi salvezza.
C’è un progetto, sapete, nella nostra indiscussa ignoranza, agisce, opera comunque. Ogni tanto sorprendiamo i segni, li chiamiamo segni. Indizi di eternità. Sentieri costellati di ineludibilità intangibili. L’ineludibilità la conosci disperante, è la disperazione. No, è la salvezza.
(continua)
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