C’è qualcosa di misterioso e surreale in questo quarto di secolo che cala le fasi ultra-autunnali di legacy-band come i Deep Purple (primo album nel 1968; Ian Gillan ha 78 anni compiuti) nell’humus di una società tecno-centrica che spesso, con un solo sguardo, fa invecchiare tutto all’istante. Qui siamo alle prese con un gruppo (nella sua nona incarnazione, Mark IX) che proviene letteralmente da un altro mondo. Un mondo che ancora non masticava l’heavy metal ma aveva fatto già la conoscenza di quell’hard-rock che ne è stato il diretto precursore. Deep Purple, Led Zeppelin, Black Sabbath, la trimurti da cui la musica dura ha origine. I DP di oggi, pur lontani parenti di quei primi DP (ci sono giusto Gillan alla voce – il buon Rod Evans durò un annetto – e Ian Paice alla batteria), però, non sono un ologramma, un riflesso generato dalla IA. Sono carne, anzianotta, che bolle ancora. Grazie anche, va detto, alla partecipazione dell’ultimo chitarrista della serie, quel Simon McBride, classe 1979, che un paio di anni fa ha sostituito Steve Morse (28 anni di fedele militanza per lui) nel segno di una quasi assoluta continuità di approccio (McBride si è descritto come un seguace di Gary Moore). A produrre il tutto, di nuovo, Bob Ezrin, che ha disegnato il suono degli ultimi Purple, protagonisti di un rinascimento costante che lascia sinceramente sbalorditi.
Qualcosa potrebbe far gridare al miracolo in “=1”, ventitreesimo album in studio della band inglese? Forse no. C’è però qualcosa che possa lasciare a bocca aperta, tanta è l’ispirazione che i solchi di questo disco trasudano? Ebbene sì. Fin dall’inizio e fino alla fine. Canzoni potenti. Concise, divinamente congegnate dal punto di vista melodico (i Purple di oggi sono decisamente più una band di melodie che una band di riff), altrettanto divinamente arrangiate, con ogni musicista coinvolto che non spreca una singola nota che sia una, rigoroso e selvaggio al tempo stesso. E poi Gillan, diamine. Limitato dalla biologia, canta esattamente come è giusto che canti, controllato e magnetico, imprimendo il proprio timbro su ogni verso pronunciato. In termini di scrittura, nulla di delirante, ma i testi sono figli di un uomo che ha ancora a cuore le basi (le relazioni, il mondo là fuori, i cambiamenti). È uno spettacolo vecchio, di classe immensa, che profuma di nuovo, “=1”; o forse viceversa. E funziona. Perché, nonostante i saliscendi di una carriera che è stata un otto volante, nonostante le evoluzioni e le involuzioni storiche di ogni suono possa essere ascritto alla categoria “heavy”, un disco simile oggi potevano tirarlo fuori solo i Deep Purple. Che nel 2024 non suonano né classic rock né hard-rock, bensì Deep Purple. Badate, non Deep Purple epoca “In rock” o “Machine head”. Deep Purple come band che si fa interprete di un concetto esteso, estendibile, tramandabile. Il concetto ultimo di sé.
Nei primi venti secondi di “Show me”, prima ancora di pronunciare una singola parola, Gillan caccia un urletto che è la cosa più Plant incisa in quasi otto decadi di vita. Tre colpi secchi – i primi tre brani – e poi “Portable door”, uno dei singoli. E “=1”, album mai introverso o buono per varie interpretazioni, è già tutto lì: spedito, ruggente, vintage ma al punto giusto. Con “Old-fangled thing” si rallenta un po’, scelta corretta che olezza di vecchio pub-rock. Con “If I were you” arriva una ballad dall’incedere quasi sensuale e le variabili – ossia i format dei brani in gioco – di “=1” finiscono qui, quasi avessero seguito un vecchio e saggio manuale anni ’70 (seconda metà, soprattutto) che a un bell’assolo e a un bel bridge suggerisce di non rinunciare per nessuna ragione al mondo. “Pictures of you” è un picco di finezza melodica, “Lazy sod” sprizza voglia di vivere, poi irrompe “Now you’re talkin’” e Gillan forza ma non sbraca. La coppia finale “I’ll catch you” e “Bleeding obvious” chiude tutto suonando come una summa, malinconica e riflessiva, di ciò che si è ascoltato fino a quel punto. Tutti in bella vista, i talenti del carrarmato Purple. Tutti in grande spolvero, i musicisti (un plauso particolare anche a Don Airey alle tastiere). Con Gillan, siamo sempre lì, che raramente ha cantato così soul. Ascoltatelo bene in “I’ll catch you” e ditemi che sentite ogni sua parola, ditemi che non vedete più, davanti a voi, una vecchia gloria del rock giunta ai saluti quasi finali, bensì un uomo, un qualsiasi uomo, che invoca il Cielo affinché gli dia una ragione (un amore realizzato) – la ragione – che renda Vita la propria vita. L’album finisce, ci si rende conto di quanto anacronistico sia e lo si fa ripartire. Per godersi qualcosa che abita altrove.