C’è un mare di palloncini colorati, grandi, evidentemente pieni di elio, dal momento che saltellano in giro. In mezzo c’è un tizio che indossa una bandiera americana, quella a stelle e strisce, come fosse un mantello, di più, come fosse un sombrero, lui ci sta infilato dentro, coprendosi, nel mentre canta su un microfono che la bandiera occulta alla nostra vita. Alla sua destra c’è un altro tizio in canottiera bianca e pantaloni attillati neri, lo si vede a malapena. A un certo punto la scena si fa concitata, perché da sinistra entra in scena un terzo tizio, lo si intravede tra i palloncini, che corre verso il tizio coperto dalla bandiera. A quel punto il tizio in canotta si sfila dalle spalle la tracolla che regge una chitarra elettrica, a sua volta nera, e usa la chitarra a mo’ di clava, colpendo il tizio che arrivava di corsa e mettendolo ovviamente in fuga, poi si infila di nuova la cinta della chitarra sulle spalle e riprende a suonare, il tizio coperto dalla bandiera a guardarsi perplesso come il meme di John Travolta preso da Pulp Fiction che un po’ di anni fa andava di moda sui social. Il tizio con la chitarra dirà qualcosa che suona come “la sicurezza era un po’ lenta, vedo questo tizio correre verso Mick, non c’era nessuno tra loro, non sapevo cosa sarebbe successo. Ho dovuto impedirgli di avvicinarsi e avevo una chitarra in mano. La cosa pazzesca che la chitarra è rimasta accordata. È la cosa migliore che ho da dire sulla Fender”. Questa scena, datata, è tratta da una esibizione dei Rolling Stones, il Mick verso cui corre il fan concitato è Mick Jagger, il tizio che lo caccia colpendolo a colpi di chitarra è Keith Richards, alla faccia che i due non sarebbero mai stati affiatati.
Un singolarissimo spot per il marchio di chitarra più famoso del mondo, che, proprio per questo, di avere uno spot non avrebbe bisogno, messo per di più in esergo di un pezzo che andrà a parlare di altri artisti, sempre con chitarre elettriche a tracolla, altro che i pianoforti di Antonello Venditti, il tutto dentro una certa coerenza, le chitarre elettriche a tracolla di chi andrò a raccontare sarebbero Mick Jagger, io Keith Richards che prova a difenderle a suon di chitarrate, questo il concetto. Non ci piace procedere per linea retta, si sarà notato, per dirla con David Foster Wallace, considera l’aragosta. Il fatto è che ci eravamo tutti un po’ illusi che sarebbe tornato il tempo delle chitarre elettriche. No, non intendo il tempo di sferrarle addosso ai malintenzionati, questo nonostante di malintenzionati, stando allo storytelling, adesso in giro in città ce ne siano anche troppi, la violenza nella Milano di Beppe Sala, quanto piuttosto al tempo in cui le chitarre sarebbero tornate nell’immaginario di chi ama la musica, il rock’n’roll. Una storia vecchia, questa di un presunto ritorno che, un po’ come il Godot tanto atteso, poi non avviene mai. I Maneskin che fanno il botto a Sanremo e Eurovision, i Fontaines DC e gli Idles che ci fanno impazzire, i tanti tour di giganti, quasi sempre del passato remoto, da Vasco agli AC/DC, toh, anche gli addominali di Lenny Kravitz, volendo anche Taylor Swift indicata come ottava migliore chitarrista al mondo, tutto lasciava ben sperare, e invece niente, le classifiche continuano a essere dominate da chi fa trap, urban o comunque un pop che alle chitarre ha da tempo rinunciato, al punto che ci si sorprende, è successo anche a me, se uno di questi giovani artisti, per dire Geolier, sul palco si fa accompagnare anche da qualche musicista, oltre che dai producer e dj.
Poi però succede che l’altro giorno, così, di botto, i clienti dei tre negozi di dischi della catena Third Man Records, nel momento di recarsi alla cassa a pagare quel che hanno comprato, vinili, cd, magazine, quel che è, si sono visti regalare una busta chiusa chiaramente contenente un album a 33 giri in vinile, busta chiusa e senza indicazioni di sorta. A ovvia domanda, “Cos’è?”, si sono sentiti rispondere, “Non lo sappiamo, è un regalo che ci è stato detto dal nostro capo di dare a chiunque oggi avesse fatto acquisti, con l’indicazione di informarne dei contenuti sette amici e poi di divulgarne il contenuto il più possibile”. Roba da Illuminati, nel senso della setta, e da illuminati. Perché la catena di negozi legati alla Third Man Records è di proprietà di Jack White, un tempo metà degli White Tripes, oggi molte altre cose, e il vinile lì contenuto, il cui titolo, apparentemente, è No Name, unica scritta presente sul vinile, al pari di due titoli, Heaven and Hell, omaggio ai Black Sabbath, in un lato, Black and Blue, omaggio agli Stones, sull’altro, è un suo nuovo lavoro. Nuovo lavoro di cui non si sa nulla, neanche i titoli dei brani, ma che è un vero e proprio inno alla musica rock suonata e pestate, in particolare al garage rock a cavallo tra i 60 e i 70. Un album pieno di riff, con pochi assoli, ma efficacissimi, senza certe sovrastrutture cervellotiche che a volte il nostro ha dispensato nei suoi tanti progetti, essenziale e a tratti anche violento, un album rock dentro il quale non si sa bene con chi abbia suonato. Un album di chitarre, indubbiamente le sue, e per le chitarre scritto, perché Jack White è uno che non ha mai fatto segreto di avere una visione della musica che passa dagli strumenti suonati e dalle mani che su quegli strumenti si muovono, con perizia, ispirazione, energia e, perché no, anche con una certa irriverenza. Regalare un album in soli tre negozi al mondo, Detroit, Nashville e Londra le città che li ospitano, contando poi su una diffusione tra appassionati che, come succede oggi coi contenuti virali, si diffonde in giro per il mondo, potrebbe essere una semplice ma efficace trovata di marketing, penso a Trent Reznor che in passato diffondeva inediti dei suoi Nine Inch Nails disseminando chiavette con dentro fil Wav in giro per i locali delle città dove la band aveva un concerto, come nuove droghe sintetiche lasciate in giro da spacciatori più simili al pifferaio magico di Hammelin che al Gatto e la Volpe, ma non si può leggere tutto questo come semplice strategia, Jack White non ne ha bisogno e comunque, a oggi, nessuno ha contezza che prima o poi questo lavoro sarà decodificato come il suo nuovo album, suo o di uno dei suoi progetti, nessun titolo, nessuna indicazione, nessuna certezza. Quindi No Name, al momento, non è il seguito della doppietta Fear of the Dawn e Entering Heaven Alive, non ancora, e ci piace pensare che così resterà, sospeso nel vuoto, musica solida in mezzo a troppa musica liquida. No Name, titolo evocativo quello scelto da Jack White, il fatto che da noi lo si conosca prevalentemente per il po-po-po-po-po-pò che ci ha accompagnato alla vittoria dei Mondiali di calcio del 2006, quelli del rigore di Grosso e della testata di Zidane a Materazzi dovrebbe indurci tutti a correre verso una scogliera come i Lemmings, sia messo agli atti, come evocativa la scelta di far sapere a chi si è trovato un vinile in regalo in mano che quel vinile era suo, dover andare a casa e appoggiarlo su un piatto la sola possibilità, fanculo il digitale e fanculo lo streaming, anche questa cosa della divulgazione settaria è evocativa, un modo per far sentire chi ne fa parte, gli appassionati di rock, il membro di una comunità partigiana, carbonara, con un segreto da proteggere, sì, ma divulgandolo. Stavolta, credo, è Jack White che ci ha salvato da un tizio sovraeccitato e malintenzionato, e come il Keith Richards del video che gira in rete, lo ha fatto brandendo una chitarra elettrica come fosse una clava, senza neanche dover tirare in ballo Wilma.