Belle e sfrontate, ed è già un problema. Belle e sfrontate con l’intelligenza a scudo e lanciata sui salottini comfort di un certo pensiero borghese, di cui pare entrambe piacevolmente dedite a frequentare, con garbo, con noia, salvo poi frantumarlo, sovvertirlo. Ed è un doppio problema. Un problema infinito. Come collocarle senza ingenerare un fastidioso pruriginoso quid di circostanza? Cosa accidenti vogliono? La letteratura non è il romanzo, non è la trama. La lettera è l’eco che destabilizza, arriva dalla medesima ferita, ognuno la indica nella categoria più appropriata. Di quella precisa ferita Francesca Marzia Esposito e Giulia Maori ne ridono egregiamente. Lo sberleffo supremo. Il dolore, certo. Lo restituiscono algide e irriverenti, dipende. Per questo mi piacciono, vincenti nell’arte della sprezzatura, vincenti perché hanno capito che in fondo le cose del mondo non posso riferire molto altro che abbagli patetici, oasi e deliri con giardinetto condominiale e posto auto. Il distacco superiore che ripara nella perfezione del traguardo: la parola scritta. Francesca Marzia torna in libreria con il saggio per Minimum Fax “Ultracorpi”; Giulia Sara Miori con il romanzo breve “La ragazza unicorno”, edito da Marsilio. Non serve molto che stia a precisare nel dettaglio. Non sono un critico accademico, sono una che scrive al massimo, anche io. Francesca Marzia racconta in un saggio l’epigono della solitudine. L’assolutezza inaudita e inarrivabile del corpo, terrificante, in cui si incaglia il nostro amor proprio, d’un tratto incolore. È un saggio e tuttavia non lo è. È il diario segreto, sottaciuto, di una mestizia che non si arrende, l’equilibrio sazio e civile che produce deformità, mai chiamate con il loro vero nome. Non è una recensione, è una riflessione, my opinion. Un modo di guardare sgretolato persino alla speranza. Qualora vi fosse la via, Francesca Marzia non la suggerisce. Al limite consiglia, a leggere tra le righe: prego di là, guadagnate l’uscita, signori. E tutto nasconde l’assenza, l’assedio, l’amore, a guardar bene. Nel senso: a gettarsi meglio nell’abisso che Francesca disvela senza colpo ferire, impassibile, elegantissima.
Giulia Sara Miori compie un’operazione simile per astuzia, raffinatezza. Ufficialmente racconta di un rapimento, un certo signor Cattaneo è vittima di un sequestro. Punto. Secondo protocollo dovrebbero discendere snodi avventurosi, foschi, noir. E invece è ben altro. È un’indagine aguzza, un’ascia sulle nostre omissioni; chi siamo; quali scelte abbiamo epicamente osato; quale viltà abbiamo ceduto in luogo del vincolo di vassallaggio per essere uguali, conformi, perbene. Giulia Sara Miori è impietosa, la parola come un breve cenno, un segno sul labbro, è un sorriso o un lamento? Le ragazze cattive della letteratura degli ultimi anni. Quel che dovrebbe essere perlomeno, non consolare mai. Sovvertono il vecchio adagio per cui la parola salva, sì la parola salva, ma alla fine di un sentiero costellato di spuntoni. La parola salva soltanto se riesci ad accettare la regola: farti divorare dalla medesima. Essere credibile, esserne la testimone. Una specie di ostia. Anche quando non credi di esserlo. Al di là di ogni legittimo ragionevole sgomento, vi auguro buona lettura.