La cerimonia finale del Premio Strega, che ogni anno, puntuale, si manifesta nella cornice d'afa del Ninfeo di Villa Giulia, tra suggestioni etrusche e totemiche botticine mignon del liquore-sponsor, acme mondana di molto rassicurante, soprattutto con sé stesso, generone romano - le giovani dame di Collina Fleming o piuttosto di via Frattina in abito lungo matrimoniale, i cavalieri con abiti da prima comunione a Santa Maria sopra Minerva o piuttosto davanti alla Navicella del Celio, ancor prima che letterario, quest’anno è da immaginare “con prenotazione obbligatoria”, presidiato innanzitutto da un bisogno di cura televisiva. Riservata a pochi, prescelti, raccomandati, creature, personcine, direbbe Alberto Arbasino in “Fratelli d’Italia”, “che se te li porti in casa mai userebbero il tuo personale accappatoio per ballare il cha-cha-cha in ciabatte”, come narra la mail ricevuta dagli “Amici della domenica”, ormai (quasi) mille votanti che un tempo avevano diritto alla presenza fisica, alla canicola serale, all’osservazione di blazer e cinti erniari di anziani direttori editoriali, a far caso alla concitazione ridicola delle insostenibili fanatiche signorine “grandi firme” degli uffici stampa, talvolta preclaramente caretteriali, all’aria annoiata dei grandi vecchi, alle velette delle contesse ormai trapassate, e ancora, appunto, al trofeo delle mignon da riporre infine, modesto trofeo, nei trumeau di casa, invece esclusi; poco importa se scrittori o piuttosto naturali, curiosi, osservatori, o doverosi imbucati, abusivi pervicaci che, mano sulla patta, facevano caso soprattutto alla presenza del buffet; il sale della terra d’ogni circostanza pubblica romana destinata alla piccola cronaca del ministeriale “Messaggero”, dell’abisso culturale trasfigurato in occasione narcisistica editoriale.
Lo Strega, detto in breve, al di là della prevedibile vittoria annunciata di Donatella Di Pietrantonio, volto da rassicurante prof di sostegno morale, assume però quest’anno le forme di una solenne doverosa festa di cresima della scrittrice Chiara Valerio, autrice dalla lingua concettualmente e sintatticamente improbabile, se non risibile, riservata soprattutto proprio a lei, apoteosi del sempre più egemone amichettismo, reificazione del già dominante veltronismo, pensiero letterario per ceti intellettualmente medi, in tutto medi: criceti, si direbbe con maggiore pertinenza filosofica. Esclusi i testimoni, meglio ritrovarsi in pochi, calore intimo di una società letteraria ormai terminale, tuttavia mortuariamente soddisfatta di sé, segnata dalla “cupiditas serviedi”, cancellato così ogni possibile coraggio antagonistico destinato a rispondere ai luoghi comuni, all’ovvio, all’ottuso, al già menzionato risibile; apoteosi degli unicorni innalzati come idoli in nome della “sorellanza” già propugnata dalla compianta "santa badessa" Michela Murgia. La mail ricevuta dagli "Amici della domenica" appare in questo senso come un manifesto di ciò che eufemisticamente chiameremo il “nuovo corso” per “anime belle” opportunamente selezionate. È il caso di riportarne i passi più significanti: “Gentili Amiche e Amici, come sapete giovedì 4 luglio si concluderà il Premio Strega 2024. Il premio cresce di anno in anno e con esso crescono le richieste di partecipazione alla serata finale in misura da non poter assicurare la presenza a tutta l’ampia giuria, né ci sembra opportuno operare scelte discrezionali. La nuova direzione del Museo Etrusco ci ha ricordato che il limite massimo della capienza del giardino centrale è fissato a 600 persone; inoltre, per esigenze televisive, è stato ampliato il palco riducendo ulteriormente lo spazio disponibile per la platea. Saranno quindi presenti a Villa Giulia – con la sestina finalista e le case editrici interessate – gli organi del premio e della fondazione, i sostenitori che ci accompagnano tutto l’anno e che rendono possibili molte delle nostre attività, con i loro ospiti, gli esponenti delle principali istituzioni, gli organi di stampa. Sono certo che comprenderete come queste scelte siano dettate, oltre che da esigenze oggettive, dalla volontà di garantire la migliore riuscita della serata”. Il riferimento agli “ospiti” dei “sostenitori”, va intuito, è il “puctum”, direbbe Roland Barthes, del progetto di desertificazione progressiva di un evento cerimoniale che annualmente a buon diritto mondano e antropologico trasfigurava il Ninfeo in un’appendice per nulla apocrifa dell’estenuante “grande bellezza” capitolina. In questo senso, ci sembra opportuno offrire al lettore inerme, se non ignaro della vera sostanza narrativa della serata finale dello Strega, alcuni incunaboli filmati delle scorse edizioni contenuti nel canale di chi scrive, Teledurruti.
Per una serena valutazione dei libri in gara quest’anno, giunti alla “sestina”, ci affidiamo a un post consegnato a Facebook da una lettrice attenta, Gianna Brezzi: “Stavo leggendo alcuni stralci e iperboliche recensioni dei libri in sestina e riflettevo su quello che certi (troppi) autori, certe scuole di scrittura (sic!) e certi meccanismi a metà strada tra la setta religiosa, la confraternita del burraco e la carboneria hanno fatto alla letteratura italiana: trasformarla nella celebrazione di un’eiaculazione sterile e senza orgasmo, in un’orgogliosa ostentazione della propria goffaggine e della propria faticosa relazione con la lingua italiana o ancora, e questo è l’aspetto più deplorevole, nella pretesa di educarci alla mediocrità in nome di una fantomatica sorellanza che salverà il mondo. A questo proposito copio un paio di eloquenti frasi pescate da quello che è ormai noto come il romanzo favorito per la vittoria: ‘Non mi riconoscevo più e volevo qualcuno che mi dicesse chi ero’, ‘Studiavo tanto, me ne volevo andare ma senza farlo vedere, speravo fossero le cose a portarmi via’, ‘Si fallisce ma non bisogna pensare che difendere le persone che si amano sia impossibile, per questo non bisogna amarne troppe, difendere è faticoso”.
Ogni considerazione ulteriore sul silenzio adolescenziale di molti scrittori su ciò che solo agli ingenui potrebbe sembrare un problema logistico, dunque di semplice agibilità, appare adesso inessenziale, perfino fuori luogo. Ogni possibile dialettica risulta infine sconfitta davanti a chi fa degli unicorni un topos letterario, al bla bla presuntamente complesso; meste seghe, mesti ditalini, pietose eiaculazioni. Al di là d’ogni possibile ironia sull’inadeguatezza addirittura ontologica dell’attuale, angelico, ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, sarà proprio la presenza istituzionale, doverosamente “d’ufficio”, di quest’ultimo a garantire l’esistenza dell’umano, la prosecuzione, perfino nell'errore, della verità nella cornice etrusca del Ninfeo, a officiare il toccante momento della cresima della vincitrice morale, in tunica bianca e cordoncino virginale, la scrittrice convinta che Simone Weil e Lady Oscar siano la stessa persona, Chiara Valerio.