Rieccoci nel paradosso della moda italiana: l’industria che celebra la bellezza, l’equilibrio e la raffinatezza, che si regge su un’organizzazione del lavoro profondamente umiliante per chi la tiene in piedi. Non è una novità, ma quando questo sistema emerge con testimonianze dirette, diventa impossibile fingere di non vedere. È quello che è successo a Reggio Emilia, dentro la Manifattura San Maurizio, da anni legata alla produzione di capi per Max Mara, simbolo dell’eleganza italiana nel mondo. Le operaie che da mesi chiedono condizioni di lavoro più dignitose, hanno rivelato a Il Fatto Quotidiano una realtà che stride con l’immagine patinata della maison: paghe a cottimo, turni prolungati ben oltre gli orari contrattuali, ritmi dettati dalla pressione e - come se non bastasse - commenti offensivi e umilianti sul corpo femminile.

E qui il dettaglio più agghiacciante: alcune di loro hanno dichiarato di essere state chiamate “mucche da mungere”, “obese”, “grasse” dai responsabili uomini. Un linguaggio che definire sessista sarebbe un eufemismo, ma che si potrebbe tranquillamente etichettare come “ignorante”, perché aprire la parentesi del sessismo presuppone anche una certa intelligenza. Altre ancora riferiscono i continui “inviti” a mettersi a dieta, mettendo in luce un controllo non solo sulla produttività, ma addirittura sul corpo, come se la forza lavoro fosse una componente da ottimizzare con l’aspetto fisico. E quindi si entra nel meccanismo di una macelleria umana, non di un marchio di lusso.
La vicenda è approdata in Parlamento grazie a Marco Grimaldi, vicecapogruppo di Avs, che denunciato l’assenza di rispetto della dignità umana e l’opacità totale sui contratti. Ma anche il Movimento 5 Stelle ha sollevato la questione con un’informativa urgente alla ministra del Lavoro Calderone. Il deputato Andrea Quartini ha richiamato l’attenzione sui gravi episodi che vedono le lavoratrici irrise per il loro aspetto fisico e sottoposte a un controllo esasperato, invitando il Governo a a mettere fine a questo sistema di sfruttamento mascherato da eccellenza del Made in Italy. Un controsenso che parla di un lusso costruito su corpi e vite sacrificati sull’altare di profitti milionari. E dall’inizio di giugno, le operaie della San Maurizio hanno iniziato a scioperare, spesso senza nemmeno le tutele sindacali.
Ma qual è la risposta di Max Mara? Nel momento in cui le testimonianze sono diventate pubbliche, la casa madre ha dichiarato di non essere responsabile delle condizioni interne di un fornitore. Una risposta consueta e particolarmente paracula, proprio perché Max Mara, negli anni, avrebbe costruito la propria identità sul controllo totale dei materiali e della filiera. Quando però si tratta delle persone, ecco che quel controllo maniacale viene a mancare. È lo stesso meccanismo che ultimamente ha coinvolto anche Armani, Dior e Valentino, tutte griffe finite nell’occhio del ciclone per condizioni di lavoro al limite dello schiavismo. Ma è proprio nelle filiere considerate “di eccellenza” che si annidano le contraddizioni più evidenti: il Made in Italy resta competitivo perché è capace di abbattere i costi (del personale) senza rinunciare alla famigerata etichetta in bella vista. E intanto, in passerella, si continua di facciata a celebrare la femminilità libera, la sorellanza e l’empowerment.