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Troppi direttori creativi maschi e bianchi? Se il problema è davvero il genere, allora la moda è ufficialmente morta

  • di Silvia Vittoria Trevisson Silvia Vittoria Trevisson

26 maggio 2025

Troppi direttori creativi maschi e bianchi? Se il problema è davvero il genere, allora la moda è ufficialmente morta
Ogni nuova nomina di un direttore creativo uomo e bianco scatena puntualmente
un’ondata di indignazione online. Ma forse dovremmo smettere di fare casting morali e tornare a giudicare le idee

di Silvia Vittoria Trevisson Silvia Vittoria Trevisson

Breaking news: pare che essere un uomo, bianco, e per giunta direttore creativo, equivalga a una condanna nel tribunale parallelo dei social media. Ogni nomina a capo di una maison, oggi, è scrutata più per la sua carta d’identità che per il portfolio, e sembra debba necessariamente affrontare un processo sommario che scavalca qualsiasi considerazione sul talento, sull’esperienza, sulla visione. Il requisito fondamentale è che non sia l’ennesimo uomo bianco.

Ancora peggio se eterosessuale, ancora peggio se ha superato gli “anta” - che qui, sempre in quel mirabolante tribunale digitale, non sono indicativi dell’esperienza nel settore, ma sinonimo di conservativismo. Ma da chi partono queste crociate? Profili noti nel panorama della moda - “Data but make it fashion”, “Diet Prada”, pagine che una volta facevano critica, oggi contabilità militante - da mesi evidenziano, puntualmente ad ogni nomina maschile, come le donne siano in minoranza nei vertici creativi del fashion system. Un’osservazione statistica che, com’è tipico dell’attivismo performativo, diventa in automatico denuncia.

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Ma denunciare cosa esattamente? Che nel mondo della moda, come in molti altri settori, esista ancora una profonda disparità di genere, è innegabile. Moltissime donne si vedono costrette a fare un passo indietro in coincidenza con la maternità, e troppo di rado vengono sostenute da un sistema che le metta in condizione di conciliare ambizione e vita privata. Se davvero si vuole parlare di rivoluzione, bisogna farlo alla base: rivedendo le strutture aziendali, le politiche di welfare, i modelli di leadership. Non si può pensare di risolvere tutto con una reaction indignata sotto il post di Diet Prada, attaccando il creativo uomo che opera nel settore da più di 30 anni. Pierpaolo Piccioli da Balenciaga è solo l’ultimo tra questi esempi.

Perché poi, nella realtà, chi si interessa davvero di moda - e non solo dei tre/quattro brand più inflazionati dell’industry - sa che alcune poltrone importanti sono state occupate da creative donne negli ultimi anni. Louise Trotter ha appena preso le redini di Bottega Veneta, Chemena Kamali ha ridato un’identità a Chloé, Sarah Burton ha guidato McQueen per oltre un decennio ed è appena approdata da Givenchy. Ma questi nomi contano solo quando servono a dimostrare che “ci sono anche loro”, altrimenti vengono silenziati o, peggio, liquidati in fretta se non risultano all’altezza delle aspettative. Il problema, insomma, non è che manchino le donne ai vertici. È che si continua a pretendere che la soluzione arrivi da gesti simbolici da parte delle maison, da scelte plateali e condizionate. Ma guess what: il cambiamento vero e stutturale, ahimè, non si costruisce screditando ogni nomina maschile come un atto di lesa maestà femminista. Fosse così facile.

Sarah Burton
Sarah Burton.

La retorica della “giustizia di genere” rischia di diventare il nuovo feticcio della moda, un accessorio etico da esibire online, ma nella maggior parte dei casi, purtroppo, non un obiettivo reale. E il punto più basso si tocca quando si presume che ogni uomo bianco al potere sia lì per cooptazione, mentre ogni donna debba necessariamente essere una rivelazione inascoltata, un genio oppresso. Giocando a questo gioco si perdono tutte le sfumature, e si finisce per offendere sia chi è arrivato al vertice con merito, sia chi non sia riuscito a salirci. Ridurre il dibattito a quote rosa o a quote arcobaleno è una scorciatoia che impoverisce la complessità del sistema moda, ma la verità è che il talento non hasesso. Se vogliamo davvero aiutare le donne nella moda, non sarà con una corsa al politicamente corretto ma con un lavoro serio su accesso, formazione, condizioni lavorative, visibilità e diritti. È lì che si crea il terreno fertile, non sulle pagine Instagram o coi TikTok indignati in cerca di like. Anche perché forse ci stiamo dimenticando del motore che da sempre, seppur a fatica, porta avanti il baraccone della moda: avere ancora qualcosa da dire. Eccolo, il vero privilegio.

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