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Fermi tutti, le freak c’est chic? Da Lucio Corsi a Edoardo Prati, stiamo assistendo alla rivincita dei disadattati

  • di Silvia Vittoria Trevisson Silvia Vittoria Trevisson

1 maggio 2025

Fermi tutti, le freak c’est chic? Da Lucio Corsi a Edoardo Prati, stiamo assistendo alla rivincita dei disadattati
Sui social lo chiamano “losercore”, ma non c’è bisogno dell’ennesimo trend preconfezionato per comprendere il morboso fascino dell’outsider. Arrivano gli uncool heroes alla (ri)conquista della moda, perché abbiamo ancora bisogno di autenticità

di Silvia Vittoria Trevisson Silvia Vittoria Trevisson

C’era un tempo in cui la parola “sfigato” era una condanna. Bastava avere una passione per le enciclopedie, un maglione con i gomiti lisi o la postura incerta di chi ha letto troppi libri e vissuto troppo poco per essere bollati come “perdenti”. I film ce lo dicevano chiaro: se non avevi il six pack, la battuta pronta o il giubbotto di pelle, eri carne da bullismo. Gli anni 2000 erano l’epoca del liceo americano in Technicolor, del culto per il quarterback e la cheerleader. Il nerd lo trovavi chiuso in biblioteca, non certo immortalato come main inspo di una collezione di Balenciaga. Ma nel 2025 tutto ha la pretesa di diventare il contrario di tutto, e i side character che ci piaceva tanto ignorare oggi diventano i nuovi protagonisti. E non per pietismo, non per tokenismo estetico, ma perché la perfezione, nella sua reiterazione digitale, ci ha nauseati.

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I social inneggiano al “losercore”, ennesima estetica preconfezionata per l’algoritmo che si prende la briga di celebrare la quotidianità più goffa, tra t-shirt slavate di Spongebob e pantaloncini in triacetato di qualche taglia di troppo. “My culture is not your costume” grida l’orda di Gen Z che estende l’appropriazione culturale perfino alle tendenze più becere di TikTok, ma non basta una punchline per nascondere la vile verità: tutto è costume, anche la cultura. E le star - della musica, dei social, del cinema e della televisione - ce lo confermano senza vergogna. Basti pensare a Lucio Corsi, che con l’aria da cantautore in dad perenne ha fatto innamorare l’Italia. Smilzo, pallido, con uno stile da glam rock in quarantena e la grazia emaciata di chi non ha mai fatto mezz’ora di palestra, è l’anti-idolo per eccellenza. Non parla per slogan, racconta favole. È un po’ come se David Bowie, Angelo Branduardi e un pastore maremmano avessero fatto un threesome su Marte, da cui è nato un figlio cresciuto tra le betulle della nostalgia.

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Lucio Corsi intervistato dalla Rai.

Accanto a lui, in questo nuovo Olimpo degli imperfetti, troviamo figure come Edoardo Prati, giovane “intellettuale” con i suoi occhiali da ottuagenario, i maglioni infeltriti e la parlantina da prof di Filosofia prossimo alla pensione. Uno stream of consciousness in digitale in cui si passa da Byung-Chul Han alle analisi sulla contemporaneità con una disinvoltura sbalorditiva. In un’epoca in cui ogni influencer è diventato uno spot ambulante, questa noncuranza estetica si trasforma in magnetismo puro, ed è proprio lì che scatta l’attrazione: nell’incapacità di performare il desiderabile. Ed ecco che la figura dell’outsider si riprende il centro della scena non perché qualcuno gliel’abbia concesso, ma perché il glamour, svuotato e inflazionato, non riesce più a reggere il peso delle proprie bugie. Il perdente è il nuovo sex symbol. E anche la moda, come sempre, ha fiutato il cambiamento dando forma ai nostri desideri più inconfessabili.

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Edoardo Prati. Foto di Isma Cristiano

Basta grossolanamente dare uno sguardo alla sfilata FW25 di Balenciaga, con i suoi completi da impiegato stravolto, le valigette consunte e le posture da anime in pena, un manifesto postmoderno del burnout - o una riunione di condominio sotto acidi - che, proprio perché reale, risulta dannatamente rilevante. Allo stesso modo, da Prada e Miu Miu vince ancora quell’estetica da ragazza introversa che legge Sylvia Plath mentre si trucca male. Miuccia continua a coltivare con feroce coerenza la poetica dell’“ugly chic”, dove ogni capo sembra raccontare non solo una storia, ma una crisi identitaria, un inciampo, un tentativo di sottrarsi al diktat dell’armonia a tutti i costi. Del resto, se negli anni 2000 il nerd era ancora un’anomalia da correggere a suon di makeover, oggi il loser ha capito che l’intero sistema premiante era truccato fin dall’inizio. Personaggi come Mark, Irving e Dylan di “Scissione”, con la loro goffaggine disarmante, sono diventati improbabili sex symbol, perché parlano a una generazione che si riconosce nell’assenza di patina, nella frattura e nella stanchezza. O a posteriori, Sheldon Cooper, Sid Jenkins di “Skins”, Paulie Bleeker di “Juno”, e così via.

E così, anche chi da adolescente è stato bullizzato per i brufoli, la timidezza o la camicia a quadri ora si prende la sua rivincita dopo anni di sforzi per dissimulare. E se questo significa tornare a sembrare un personaggio di un film indie girato con 12 euro, meglio così. Perché l’alternativa è diventare l’ennesimo manichino levigato, e onestamente, che noia.

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