C’erano giorni, non così lontani, in cui il tennis era il tempio dell’eleganza sportiva, e l’Italia ne era una delle cattedrali. Bastava mettere piede su un campo, e il bianco immacolato delle polo, la sobrietà delle divise, la geometria impeccabile dei pantaloncini cuciti come si usava da noi, raccontavano tutto quello che serviva sapere: qui si gioca, sì, ma si rappresenta anche uno stile. Ogni dettaglio dell’abbigliamento era parte del rito. La racchetta poteva essere un’arma, ma la divisa era un manifesto. Oggi questa liturgia si è dissolta, evaporata tra una moda che guarda più alla provocazione che alla memoria e una cultura dell’apparire che sembra aver polverizzato il senso della misura. L’outfit nel tennis professionistico è stato travolto da una trasformazione radicale, una rivoluzione silenziosa che ha svuotato i codici estetici che avevano fatto scuola soprattutto in Italia. E la canottiera di Lorenzo Musetti a Madrid contro Tsitsipas, dopo quelle di Alcaraz, Shelton, Zverev, non fa più notizia. È la nuova normalità. Il dress code è evaporato, lasciando spazio a una deriva di magliette con colori psichedelici, e abbinamenti che sfidano il buongusto più che l’avversario dall’altra parte della rete.

Chi dice che “sono solo canottiere” finge di non vedere la questione. Si è passati dall’identità alla provocazione, dal rito alla performance. Non è nostalgia. È identità. E lo sa bene Adriano Panatta, ultimo grande interprete dello stile come sostanza, capace di ricordare a tutti, senza paura di sembrare antico, che lo stile non è un vezzo, ma un modo di pensare il tennis. “Ma io mi domando, ma tutti questi giocatori vestiti con la canotta non sembrano dei bagnini invece dei tennisti?” aveva scritto a inizio anno Panatta sui social, raccogliendo i consensi di chi ancora sente il bisogno di difendere un patrimonio che non è solo tecnico, ma anche culturale. Per Panatta lo stile non è un orpello, ma parte integrante del gesto, del modo in cui si entra in campo. La deriva ha contagiato quasi tutti i tornei. Oggi l’eccezione è Wimbledon, ultimo baluardo di una tradizione che non si piega alla moda del momento. Lì il bianco è obbligatorio, punto. La regola, nata nel 1877 per mascherare le antiestetiche macchie di sudore sulle magliette colorate, si è trasformata negli anni in un vero e proprio decalogo, un manifesto di resistenza contro l’eccesso.

Sul sito ufficiale del torneo si trova ancora la lista delle prescrizioni: bianco ovunque, dettagli cromatici ridotti al minimo, e un controllo che non fa sconti nemmeno ai più grandi. Nel 2009 Roger Federer si presentò con una felpa bianca e dettagli dorati, abbinata a una borsa altrettanto ricercata. Due anni dopo, venne multato per aver osato una suola arancione sotto le scarpe bianche. E non sono mancati i ribelli, da John McEnroe che sfidò il sistema con una fascia rossa sulla testa nella finale del 1980, ad Andre Agassi che per anni si rifiutò di mettere piede sull’erba londinese perché non voleva piegarsi alla regola. Agassi, emblema di una generazione cresciuta per stupire, nel 1992 dovette però arrendersi: Wimbledon non si discute. E negli anni il torneo ha concesso solo qualche rara deroga, come quella più recente e di buon senso che permette alle tenniste di indossare shorts scuri durante il ciclo.

Ma fuori dall’erba londinese, ormai, è far west: la regola del bianco è archeologia, il codice della sobrietà archiviato in nome dell’estro, del marketing, della personalizzazione a tutti i costi. E proprio qui si consuma la scomparsa dello stile italiano, quello che aveva fatto scuola per decenni. La generazione dei Panatta, dei Bertolucci, dei Barazzutti, ma anche quella dei primi Seppi e Fognini, sapeva ancora cosa significasse vestire con misura, curare i dettagli, rispettare una liturgia. Oggi i nuovi talenti italiani seguono la corrente globale: più personal branding. Così, quello che era un orgoglio italiano, ovvero la capacità di far coincidere classe, sportività, misura, si è dissolto. Non resta che Wimbledon, con la sua grammatica del bianco e le sue regole di un altro tempo, a ricordare che il tennis era anche una questione di stile. E l’Italia, almeno per ora, sembra aver smesso di crederci.