Prima dei giochisti contro i risultatisti c’erano gli zonisti – poi pigramente ribattezzati solo come “sacchiani” – contro i (supposti) conservatori della marcatura a uomo. In mezzo a questi zonisti, colto e quasi mai pettinato, c’era Giovanni Galeone, napoletano, storico allenatore del miglior Pescara di sempre, scomparso oggi all’età di 84 anni dopo una lunga malattia. Uno a cui la giacca e la cravatta sono sempre andate strettissime. “Il mio bilancio? Nessun rimpianto, ho avuto tutto quello che volevo. Mi sono divertito”, ebbe a dire, già anziano. E già. Con un 4-3-3 che ha fatto scuola c’era da divertirsi, effettivamente. Offensivo, sbarazzino e via di aggettivi. Solo lo zonista Sacchi, in quel periodo, vinse con una grande squadra (il Milan delle due Coppe Campioni). Maifredi alla Juve e Orrico all’Inter fallirono. Forti dei rispettivi miracoli calcistici (Bologna, il primo; Carrara e Lucca il secondo) non riuscirono a trasferire il loro credo dalla provincia alla grande piazza. La provincia, appunto. Una dimensione laboratoriale in cui gente come GB Fabbri e Galeone hanno predicato calcio. E, se vogliamo – insieme a Zdenek Zeman, che anche con Roma e Lazio fece vedere grandi cose – annunciato un nuovo calcio. Spavaldo, con lo sguardo sempre alto. Non è mai stato compiacente, Galeone. “A Vienna parlai con Silvio Berlusconi fino alle cinque del mattino. Mi fa: “Bene Galeone, mi chiami che dobbiamo proseguire questa chiacchierata”. Mai alzato il telefono: speravo lo facesse lui”. Capito? sperava fosse Silvio a chiamarlo. Fantozziano mai, insomma. E pensare che oggi neanche con certi procuratori alcuni allenatori riescono a tenere la schiena dritta.
A Pescara, fra la fine degli anni ’80 e i primi ’90 (in mezzo una parentesi a Como), Galeone ha fatto vedere grande calcio. Grande e anche competitivo. Inter e Juventus fra le vittime di quella macchina di certo non perfetta ma a tratti incontenibile. 13 settembre 1992: ne prese cinque dal Milan, quel Pescara, ma all’armata di Fabio Capello e Marco Van Basten gli undici di Galeone riuscirono comunque a rifilare quattro gol (dopo 24 minuti il risultato era Pescara-Milan 4 a 2). Perché quella squadra, che oggi arranca in Serie B, non aveva mai paura. “Nessuno gioca come il mio Pescara. Ho un gioco nuovo che sbanca. I miei centrali di difesa respingono il pallone con le mani in tasca. Eleganti, sicuri. Non esaspero fuorigioco e pressing come Sacchi… Se vai a pressare chi sa palleggiare, chi sa spostare la palla e ti fa correre, finisci con la lingua fuori e ti frega in contropiede”. Insegnava e vedeva calcio, Galeone. E si faceva capire bene. Oggi i suoi discepoli (Massimiliano Allegri, in primis, ma anche Gian Piero Gasperini, che – strana sorte – si trovano di fronte in Roma-Milan) da anni fanno ottime cose senza aver scimmiottato il proprio mentore, avendo invece reinterpretato e aggiornato quanto imparato.
“Vince il più bravo, non il più forte”, diceva, con parole che si sono rivelate essenziali per comprendere le ragioni del Napoli campione d’Italia, che lo scorso anno ha conquistato il titolo superando sul filo di lana la più quotata Inter. “Pescara per me è sempre stata una festa”, ha sempre ricordato, riportando la sfera nel punto in cui dovrebbe sempre stare. Nel mezzo di un campo verde con migliaia di persone vocianti ed entusiaste tutte attorno. Perché anche Galeone li ha fatti, gli 0-0, ci mancherebbe. Ma spesso erano partite che avrebbero comunque potuto finire 2 a 2. La panchina di Galeone era vuota dal 2013, ma la sua presenza si sentiva comunque. Interpellato dai media parlava di Allegri come di un figlio. Orgoglioso, sentiva le vittorie di Max anche un po’ sue. E se qualcuno bacchettava il suo pupillo, scendeva di nuovo in campo con una parola pubblica di sincero conforto. Affezionato al suo calcio. Alle sue convinzioni. Ai suoi uomini di fiducia. Compreso quel Blaž Slišković che “se giocasse oggi vincerebbe il Pallone d’Oro”. Un difetto? Più di uno. Certamente col telefono non aveva un buon rapporto. Ne sapeva qualcosa lui. Silvio.