Campioni in campo, o campioni fuori. Roberto Baggio è entrambe le cose. Il suo racconto, ospite del podcast Bsmt di Gianluca Gazzoli, è un viaggio nella storia recente del Bel Paese in cui ogni tappa, dalla Fiorentina alla Juventus, dal rigore di Pasadena al buddismo, è accompagnata da una profondità rara, quasi mistica, che solo chi ha sofferto può permettersi di maneggiare con tanta pacata serietà. A cominciare dalla nuova generazione, quella dei Sinner e degli sportivi che riescono, nonostante la fama, a restare umani. “Jannik l’ho incontrato per caso, era con la mamma e avevano appena visto il Papa. Mi ha colpito subito la sua umiltà. Credo sia un esempio meraviglioso per i giovani: oggi il mondo ha bisogno di gente così”. Il pubblico, nello sport come in ogni altra forma d’arte, va educato. E Baggio ha sempre avuto un rapporto di passione totale con il pubblico, come racconta ricordando l’amore ricevuto a Firenze, prima ancora di scendere in campo. “Mi sentivo amato dai fiorentini, e in debito con loro. Dopo l’infortunio la società poteva lasciarmi, invece mi ha dato fiducia. Ho fatto quasi due anni senza giocare, avevo perfino vergogna di andare a mettere gli assegni in banca”. Un legame così profondo che il passaggio alla Juventus, uno dei più discussi della storia del calcio italiano, fu vissuto con grande sofferenza: “Io non rifiutavo la Juve, ma non volevo andarmene da Firenze. Quando me ne andai, stavo facendo la preparazione a Coverciano per Italia ’90. Ci furono incidenti per tre giorni, e la cosa mi toccò profondamente. Il loro amore si è trasformato in un inferno”.

Tra le righe di queste parole si legge tutto l’atteggiamento di un uomo che non può essere chiamato in altro modo che campione, al punto di arrivare al famoso bacio alla sciarpa viola durante Juventus-Fiorentina, quando già vestiva in bianconero. Ma essere campioni è qualcosa di destinale, a volte difficile da sopportare. E forse anche per questo, quando il calcio sembrava non bastare più, Baggio cercò rifugio altrove. “Mi ha introdotto Maurizio Boldrini al buddismo. All’inizio ero scettico, ma stavo male. Non riuscivo a relazionarmi con gli altri. Dopo dieci giorni di pratica mi sentivo già cambiato”. Era un’altra epoca, dove l’apertura spirituale era vista con sospetto: “All’epoca ti prendevano per uno stregone”. Ma la sua scelta, come tutto nella sua vita, è stata un atto di coraggio. Nella Juve di quegli anni, la figura dell’Avvocato Agnelli era ancora centrale. “Mi chiamava alle cinque e mezza del mattino, voleva sapere come stavo e com’era andata la partita”. Una testimonianza di quanto fosse stimato e rispettato anche nei palazzi più alti del calcio italiano, in un’epoca in cui i presidenti non erano spersonalizzati come adesso. Poi, inevitabilmente, arriva il momento in cui il tono si abbassa: il rigore di Pasadena. Un tiro sbagliato che ha fatto la storia, e che ancora oggi abita i suoi sogni. “Mi prendo le mie responsabilità: ho perso il Mondiale, ho perso il titolo di miglior giocatore del mondo, ho perso il secondo Pallone d’Oro di fila. Tre cose in un colpo solo. Se avessi avuto un badile, mi sarei sotterrato”.Non manca un passaggio su Marcello Lippi, con cui il rapporto è sempre stato ai limiti dell’insopportabilità. “Col tempo ho capito che davo fastidio, perché avevo sempre la gente dalla mia parte, che mi voleva bene”. Una consapevolezza che racconta meglio di mille polemiche quanto possa essere scomodo, a certi livelli, superare l’allenatore in popolarità. Perché Roberto Baggio non parla molto, non appare quasi mai, ma quando lo fa è sempre come quando accarezzava il pallone: dà agli altri qualcosa che non tutti riescono a dare. Il piacere.

