C’è un’immagine che ieri ha raccontato più di mille comunicati: undici maglie bianche, nessun colore, nessuno stemma, nessun logo. Solo la scritta “Nessun valore, nessun colore”. È così che il Lecce è sceso in campo a Bergamo contro l’Atalanta, costretto a giocare la “partita dei valori calpestati” poche ore dopo la morte di Graziano Fiorita, fisioterapista da anni nello spogliatoio giallorosso. Non un dettaglio: Fiorita era il collante silenzioso di una squadra intera, una figura che nessuno vorrebbe mai salutare con la fretta di chi parte per una trasferta. La storia parte da lontano, da giovedì sera, quando la tragedia irrompe nel ritiro del Lecce e tutto si ferma: Graziano Fiorita muore all’improvviso, lasciando una famiglia, quattro figli, una squadra e una città tramortiti. Il club si attiva subito: la richiesta è semplice, quasi banale, in qualsiasi altro contesto civile sarebbe scontata. Il Lecce chiede di giocare martedì, non domenica. Ma la Lega risponde picche: non si può. Non serve il pressing del ministro dello Sport Andrea Abodi, che nella giornata del 26 aprile interviene personalmente per provare a convincere la Lega Serie A a fermarsi, almeno per rispetto.“Non c’è rispetto per i veri valori della vita”, dicono le sorelle di Fiorita, e la società salentina resta sola davanti a un muro di gomma.

A Bergamo, il gruppo squadra parte con un volo charter, senza il presidente, senza la maggior parte dei dirigenti, che giustamente hanno scelo la protesta e di non presenziare a una partita che ritengono fuori luogo. Rientro immediato dopo la gara, come una trasferta fatta solo per onorare un obbligo, non per vivere una giornata di calcio. Sul campo, però, si gioca un’altra partita, quella della dignità. La maglia bianca è tutto tranne che un orpello estetico: è una forma di protesta lucida ma senza sbavature, sobria ma fortissima. “Giocheremo la partita ‘dei valori calpestati’, ma lo faremo indossando una anonima casacca bianca, che non ci rappresenta, senza colori, stemmi e loghi. Torneremo a vestire la nostra maglia quando Graziano ritornerà a casa e sarà omaggiato, come merita, dalla sua gente”, ha scritto il club in un comunicato che è un manifesto di civiltà sportiva. Una presa di posizione netta nel ribadire che i ruoli dietro le quinte no, non sono sacrificabili in nome della continuità del business.
E qui arriva il nodo centrale: esiste una gerarchia del dolore nel calcio italiano? Se un calciatore accusa un malore o, peggio, muore in campo, la macchina giustamente si ferma, lo stop è sacrosanto e unanime. Si piange, si riflette, ci si interroga su protocolli, regole e sensibilità. Ma quando a scomparire è un fisioterapista, un membro dello staff, uno di quelli che lavorano lontano dai riflettori, allora la partita si gioca lo stesso. Come se la sua vita valesse meno. Come se, senza la maglia numero dieci o manciate di goal, la morte potesse essere inserita tra parentesi. Eppure, sono proprio le figure come Fiorita che tengono in piedi un club: sono i ponti tra campo e spogliatoio, tra atleti e allenatori, tra momenti di gioia e giorni bui. Senza il lavoro silenzioso e costante di queste persone, nessuna squadra avrebbe equilibrio, forza o identità. In tutto questo, il rispetto più sincero va anche ai tifosi dell’Atalanta: niente striscioni, niente bandiere, una curva ammutolita nel segno della solidarietà, il fischio all’inno della Lega come rifiuto di una scelta ritenuta ingiusta da tutti, pure dagli avversari. Un gesto non scontato, che dimostra come il calcio sappia ancora essere comunità.

Il calcio italiano, per la morte di Papa Francesco, si è fermato: cinque giorni di lutto nazionale e campionati sospesi per un evento che ha scosso il mondo intero. Stavolta, per Graziano Fiorita, invece, si è andati avanti. Ma una vita umana non ha gerarchie di sorta. Il Lecce ha dato la risposta migliore possibile, scegliendo di rispettare le regole imposte ma senza rinunciare a un briciolo di dignità. Hanno giocato perché costretti, ma lo hanno fatto mostrando, ogni secondo, tutto il loro dissenso. Per questo i giocatori del Lecce meritano non solo rispetto, ma ammirazione. Hanno dimostrato che si può essere professionisti senza diventare automi, che il dolore non può essere ignorato, che i valori veri esistono ancora, anche se qualcuno si ostina a calpestarli in nome dello spettacolo. Questa partita l’hanno vinta loro.