Il pallone si sgonfia per rispetto, ma solo quando conviene. Si gioca a Pasqua fregandosene della benedizione del Papa, si smette a Pasquetta quando il Papa poveretto non c’è più. Si sgambetta mentre risorge il Cristo, ma ci si inginocchia quando muore il Vicario (no, non il portiere del Tottenham e della nazionale, quell’altro vestito di bianco). La Serie A si ferma tutta d’un colpo. Morto Bergoglio, lo sport italiano tira il freno a mano d’emergenza, con l’obbedienza contrita del bimbo che si è fatto la pipì addosso in chiesa. Ordine del Coni. Ossequio della Figc. Rinviate, con tono liturgico e campionato in parte falsato e di sicuro non più sincronizzato, Torino-Udinese, Cagliari-Fiorentina, Genoa-Lazio, Parma-Juventus, e via scendendo fino ai dilettanti, come un’enciclica a pioggia su un campo arato da una logica medievale.
Le dichiarazioni, come sempre, puzzano di incenso e comunicazione di crisi: “A seguito della scomparsa del Santo Padre...”. Linguaggio da necrologio aristocratico, che con lo sport – la culla della bestemmia in mondovisione – ha lo stesso rapporto di un vescovo con il pressing alto. E allora una domanda su tutte: perché? Perché fermarsi? E perché invece a Pasqua – la Pasqua vera, quella del morto risorto, del dogma forte – si è giocato come non accadeva dal 1978?
La risposta, come tutte le verità italiane, si annida tra ipocrisia, folklore e il bisogno di apparire compassionevoli davanti al riflettore mediatico acceso. A Pasqua si è giocato, anteponendo (giustamente o no, dipende dall’opinione di ciascuno) alla sacralità confessionale interessi totalmente materiali (la Coppa Italia che incombe, la Champions League che scalpita, i diritti tv che respirano sul collo). Ma alla morte del Papa no: lì ci si inginocchia. Lì si fa il gesto. Si finge compattezza spirituale, si replica l’unità nazionale a comando, come un flash mob con le stimmate.

C’è, evidentemente, un riflesso condizionato nella coscienza italiana: si gioca durante la resurrezione, ma ci si ferma per il decesso. Lutto batte liturgia, silenzio batte gioia, la mestizia pubblica è più spendibile dell’euforia collettiva o privata. È il funerale che ci unisce, non la festa. E la Chiesa – sia chiaro – non ha chiesto nulla. Il Vaticano non ha diramato diktat, non ha lanciato scomuniche verso chi si ostina a marcare a uomo o a zona anche nel giorno del trapasso pontificio. È stato lo Stato – lo Stato teoricamente laico, ricordiamolo – a decidere che tutto si dovesse fermare, in automatico, in genuflessione di default.
In tutto il resto del mondo il calcio continua, la vita continua, e per chi vuole e per chi ci crede la preghiera continua senza bisogno di bloccare i tornei. Solo in Italia, quando muore il Papa, ci si comporta come se fosse morto il presidente del proprio Paese (o dell’universo). Nessun altro Paese ha sospeso nulla, a quello che risulta. Né nella “cattolicissima” Spagna, né in Argentina (altrettanto cattolica nonché patria del defunto pontefice), né in Germania, né in Francia. Italia, invece, si chiude tutto con uno zelo che sconfina nel grottesco. Che non è nemmeno più devozione: è coreografia.
E allora il paradosso definitivo: si è giocato a Pasqua, per la prima volta dopo 47 anni, come a voler rompere con un tabù ancestrale, con quel fastidio clericale che da decenni alcuni pensavano di essersi scrollati di dosso (squalifica a spot per bestemmia catturata dalle telecamere – ma solo con audio – a parte). Poi però si spegne tutto quando smette di esistere il Papa. Il risultato è schizofrenico, da soggetto borderline: la laicità a intermittenza, come i neon di una sagrestia abbandonata.
Nel 2004 si giocò Perugia-Inter a Pasqua e Umbria Radio – voce dell’arcidiocesi – si rifiutò di trasmetterla in diretta. In un rigurgito di coerenza, il vescovo parlò. Oggi si gioca (giustamente) nella domenica pasquale senza nemmeno un comunicato. Ma se il Papa muore, tutto si ferma, immediatamente. Come se a venire meno non fosse un capo religioso di un altro Stato (perché lo Stato pontificio non è l’Italia, è un altro Stato). E nessuno pare interrogarsi più su quel che conta davvero: la coerenza. La logica. Il senso.
Perché, in fondo, lo sport dovrebbe vivere di regole chiare, principi misurabili, competizione paritaria. Ma in Italia il calcio è il contrario: è il grande campo magnetico in cui si riversano tutte le contraddizioni nazionali. Giocare a Pasqua per esigenze di palinsesto? Sì, certo. Fermarsi per lutto papale? Ovviamente. Il tutto nel giro di un giorno, senza colpo ferire, con la naturalezza dell’assurdo che si è fatto sistema. Di Dio nessuno parlava poche ore prima, se non per lamentarsi con lui del Var o della rimessa del Bologna contro l’Inter durante il recupero.
E così, tra una ripartenza e una processione, il pallone italiano scivola di nuovo nel teatro della rappresentazione. Dove il Papa è più importante del pallone, ma solo per qualche ora. Dove la resurrezione può essere ignorata, ma la morte no. Dove si finge di credere in ciò che non si crede più o in cui non si è mai creduto, per compiacere l’apparenza di un’identità che esiste solo nelle note di palazzo ufficiali.
L’Italia istituzionale sportiva si inchina. Tutta. Compatta. Plastica. Goffa. Come un bambino costretto a portare le scarpe della prima comunione anche per giocare a calcio, inciampando nel fango mentre i genitori scattano foto dalla tribuna d’onore.

Dove finisce la sacralità e dove comincia la farsa? Non c’è nulla di sbagliato nel voler commemorare una figura mondiale. Nulla di assurdo, nemmeno, nel rispetto. Ma la schizofrenia istituzionale, morale e simbolica che ci fa chinare la testa per un lutto religioso e allo stesso tempo spalancare gli stadi nella domenica della resurrezione ci racconta molto più di quanto vorremmo sapere sulla nostra idea di coerenza. Sul nostro spirito pubblico. Sulla nostra struttura interiore di Stato. Se uno Stato si dice laico – e la Costituzione, almeno in teoria, lo sancisce – allora certe scelte dovrebbero riflettere la distanza istituzionale tra sacro e civile. Eppure il Coni, la Lega Serie A, la Figc e tutte le componenti federali si sono immediatamente allineate, come se il campionato stesso fosse stato concepito dentro un tabernacolo. Tutti gli altri vanno avanti. Noi ci fermiamo. Ci inginocchiamo. Perché la fede, in Italia, è ancora soprattutto immagine: è gesto, non convinzione. È folklore, non dogma. È retorica travestita da rito. Perché la morte – più della vita – è sacra. È show. È ipnosi collettiva. È cordoglio prêt-à-porter.
C’è qui qualcosa che va oltre la religione, e oltre lo sport. Una forma di nevrosi collettiva travestita da decoro. L’illusione che un’istituzione, per conservare autorità, debba sempre e comunque genuflettersi, anche in ambiti che non le appartengono. Come se ogni cosa in Italia fosse ancora, sempre, confessionale. Dal codice penale al campionato primavera.
Ma dove siamo finiti? In quale teatro dei simboli recitiamo, da quanti atti, da quanti decenni?
C’è chi dirà: il Papa è anche Capo di Stato. Sì, ma non dello Stato italiano. Allora perché non ci siamo fermati per la regina Elisabetta? Per l’imperatore del Giappone? Per Nelson Mandela? E se l’Italia continua a confondere religione con cittadinanza, spiritualità con protocollo, allora siamo ancora in pieno Concordato di epoca pre-Concilio Vaticano II. Altro che Stato laico.

E non si dica che “il calcio è della gente, e la gente è cattolica”. Perché la gente, oggi, è liquida. Mista. Confusa. C'è chi crede, chi bestemmia, chi prega davanti al televisore per un rigore. Il calcio non è il catechismo. È guerra simulata. È tribù. È sangue rituale. Ma non è – mai – sacramento. Al massimo è superstizione.
A volerci vedere chiaro, sembra che ciò che muove davvero le scelte della governance sportiva italiana non sia la fede, ma la paura. Paura di sembrare irrispettosi. Paura dei titoli dei giornali, dei vescovi in prima serata, dei post indignati. Allora meglio chiudere tutto. Rinviare senza sapere a quando, né – davvero – perché.
Ma è proprio qui che si annida il veleno: in quella torsione culturale che fa sembrare la morte del Papa – il gesto meno rilevante, oltre che il più involontario, che Bergoglio abbia mai fatto – più importante di tutto il resto. Del diritto, della coerenza, della realtà. In quella sudditanza simbolica che ci fa credere ancora che l’Italia, nei suoi momenti più solenni, debba inginocchiarsi. Anche se non sa più a quale Dio rivolgersi.
E allora, sì, che senso ha giocare a Pasqua e fermarsi per il lutto papale? Che logica c’è nel profanare la resurrezione e sacralizzare il tweet-necrologio che annuncia che Bergoglio “è tornato alla casa del padre”? Perché si può trasformare lo stadio in un altare solo quando conviene? E, oltretutto, siamo davvero sicuri che il defunto Papa, amante del calcio e poco incline a rispettare le prescrizioni naftaliniche (vedi anche il suo approccio nei confronti delle raccomandazioni mediche), avrebbe voluto che lo sport e la vita (ipocritamente, momentaneamente) si fermassero assieme alla sua?
Il paradosso è che la religione, oggi, si è dissolta. Non nei cuori – che sono sempre misteriosi – ma nelle strutture sociali. La sua presenza resta solo nel linguaggio, nei comunicati, nei silenzi imposti. Come una musica di sottofondo che nessuno ascolta più, ma che nessuno osa spegnere. E nel frattempo il calcio si comporta come un vecchio zio, che si leva il cappello quando entra in Chiesa, anche se poi tira giù santi, divinità, porchi, cristi e madonne in curva, al bar o in salotto.
Il Papa è morto. Viva il Papa. Ma il calcio, almeno, provi a capire chi è. Cos’è. E per chi gioca.