Mercoledì 16 aprile 2025 il Bayern Monaco si gioca il ritorno dei quarti di finale di Champions League contro l'Inter. Una partita che vale una stagione, con tutta la pressione e le aspettative del caso. Ma mentre la stampa sportiva si concentra su chi scenderà in campo, c’è un'altra partita che si gioca a bordo campo, ed è quella dello stile. E lì, purtroppo per gli italiani, l’allenatore del Bayern Vincent Kompany è già in vantaggio. L’ex colosso difensivo del Manchester City - laureato in Business Administration e fondatore di un’etichetta musicale - ha portato in Bundesliga un’estetica che rompe il cliché dell’allenatore ingessato. Niente look da commercialista in gita aziendale, niente cravatte che sembrano corde per l’autopunizione. Kompany si presenta con l’aria di chi ha fatto scouting anche tra gli archivi di Yohji Yamamoto, un glitch nel sistema sartoriale del calcio. Un elemento estraneo che tuttavia, nonostante gli scettici, funziona.

Già ai tempi dell’Anderlecht e del Burnley si era capito che Kompany avesse uno stile personale sobrio ma deciso, comodo ma ragionato. Adesso, al Bayern, si è liberato del tutto dal dress code da manager preconfezionato, alzando l’asticella. Il suo approccio nei confronti della moda, così come nel gioco, infatti, si potrebbe definire “verticale”, coraggioso, disruptive. Layering chirurgico, capi oversize mixati con tagli strutturati, palette sobrie e una predilezione notevole per il total black: Kompany si veste come uno che sa che il calcio è una spettacolo in continua evoluzione, e sta al passo coi tempi. Anzi, a giudicare dai suoi colleghi, diremmo piuttosto che li anticipa alla grande. Vincent Kompany è sulla bocca di tutti perché non cerca di rifarsi a nessun modello pre-impostato: né ai profeti della giacca doppiopetto come Sacchi, né al casual elegante di Guardiola. In panchina è una figura d’autorità che non ha bisogno di bardature, parla chiaro il linguaggio dei materiali, delle proporzioni, dell’attitude. La sua serietà si percepisce da come porta una felpa con la stessa autorevolezza con cui altri indossano un cappotto su misura, e questa, in effetti, è vera padronanza.

Il suo stile ci parla di football americano, di allenatore motivazionale nei film cult sportivi, un’ispirazione lontanissima dalla tradizione italiana, e forse è proprio per questo che ne stiamo parlando. L’allenatore 38enne costruisce il suo stile con cappellini con visiera ricurva, che completano i suoi fit da “man in black”, mai troppo vistosi eppure spesso sulla bocca di tutti. A questo accessorio distintivo si abbinano capispalla urban dal fit oversize, dai bomber ai piumini e le giacche a vento, che sottolineano la sua predilezione per il comfort. Le uniche incursioni di colore sono quelle in rosso e bianco, Bayern Monaco style, per le tracksuit sportive di Adidas Originals (sponsor della squadra). Le poche volte che si è sforzato di indossare un completo, ha scelto di abbinare sneakers bianche e t-shirt sotto il blazer monopetto, rigorosamente sbottonato e casual.
E allora viene da chiedersi: perché tutti gli altri continuano a vestirsi come se fossero in fila per un colloquio in banca nel 1997? Sarà che nel calcio, come in certi uffici pubblici, cambiare divisa equivale quasi a tradire una liturgia. Ma è ora di dirlo: quella liturgia è stanca, polverosa, e spesso smentita dai fatti. Perché l’autorevolezza non si costruisce a colpi di panciotto e cravatta a righe, ma attraverso un linguaggio coerente, riconoscibile, capace di comunicare qualcosa anche prima del fischio d’inizio. Kompany, in questo, è una bella eccezione, e ci dimostra che si può avere credibilità senza mimetizzarsi nel grigiore, e oltretutto che si può allenare una delle squadre più titolate d’Europa senza vestirsi come un direttore di filiale. Il suo stile è un invito eloquente a ripensare l’estetica a bordo campo, a uscire da quell’eterna comfort zone fatta di completi in blu navy e scarpe Oxford lucidate a specchio. A capire che lo stile, proprio come il calcio, si gioca anche sulla capacità di anticipare, sorprendere, rompere le righe. Forse è davvero il momento di cambiare paradigma, perché se l’allenatore moderno deve essere leader e stratega, allora non può continuare a vestirsi come se fosse rimasto immacolato nel tempo. Il calcio evolve, gli schemi cambiano, i ruoli si ibridano. È l’estetica a bordo campo che non deve restare in fuorigioco.
