Il dolore, ma un po’ meno. La sofferenza, ma almeno anche un po' di sollievo. Vittorio Boiocchi è morto il 29 ottobre del 2022. Due anni e mezzo ci sono voluti per trovare i suoi presunti assassini. Se Andrea Beretta il 4 settembre scorso non avesse ucciso Antonio Bellocco e non si fosse pentito probabilmente il caso Boiocchi sarebbe rimasto irrisolto ancora per molto. Perché un omicidio può portare alla soluzione di un altro omicidio. Questo la ‘ndrangheta l'ha capito ed è per questo che quando uccide ormai preferisce uccidere bene, senza lasciare troppe tracce. Oppure meglio non uccidere. Da venerdì scorso ci sono sette indagati; un mandante, due organizzatori, due complici e due esecutori. Ma le risposte chiamano altre domande. E piste che sembrano chiudersi lasciano intravedere altri sentieri da seguire. Milano è una città dove tutto si mischia: le relazioni tra gli ultrà e le famiglie del Sud, gli ultrà e la politica, gli ultrà e la musica, gli ultrà e le società di calcio. Milano fa storia a sé. Ha regole tutte sue. Non è promiscua, come Roma. È più fluida, anche nella criminalità.


Il mito della mala e il killer improvvisato
Ho cominciato a lavorare su Boiocchi a settembre scorso seguendo il filo che da Beretta e Bellocco portava a lui. Due più due. Più guardavo dentro a questi due casi più mi rendevo conto che erano delle lenti attraverso le quali potevi avere una visuale privilegiata sulla città, sugli intrecci e sulle dinamiche che la governano. Vero. Così è. La prima volta che sono stato a Figino, un quartiere dopo i cortili dei vecchi casolari di Baggio, dopo il parcheggio e il capolinea degli autobus di Lampugnano, dopo San Siro e i quartieri delle babygang, era il 10 ottobre. Boiocchi abitava lì, a Milano ma oltre Milano, periferia della periferia. Via fratelli Zanzottera è una delle poche vie dove ci sono i portici, come a Bologna. Un bar, un circolo, una Chiesa, una fermata dell'autobus. Poi i palazzi. Popolari. Davanti a uno di questi, civico numero 12, è morto Vittorio. Cinque colpi, uno gli perfora lo sterno, uno gli si conficca in gola, tre finiscono sul muro. I segni sono ancora lì, nel cemento, sotto il citofono. Strana roba. Chi spara è un principiante. La distanza è troppo poca per sbagliare. Adesso sappiamo che, in effetti, chi ha sparato lo stava facendo per la prima volta. Perché il calabrese che avrebbe dovuto farlo aveva avuto un problema. Sono le 19:40. Il fondatore dei Boys San (squadre d'azione neroazzurre), il gruppo che ha creato la curva Nord interista, dopo aver passato 26 anni tra le carceri di mezza Italia, dopo essere tornato in libertà e al comando degli ultrà, viene ucciso così. Vittorio era chiamato Lo Zio. Zio era un appellativo usato da tutti a Milano, era come dire Bro o Fra, ma Lo Zio - con l'articolo determinativo - te lo dovevi meritare. E quella sera un mito della mala milanese cade per mano di un killer improvvisato. Segni del tempo.

Il messaggio della moglie Giovanna
La moglie Giovanna Pisu, signora Gianna, abita ancora lì. Suono il campanello con il suo nome. Mi parla appena, non mi apre il cancelletto. Due anziani entrano e mi infilo dietro di loro. Nel cortile ci sono dei box, la prima scala a destra è quella dove abitava Boiocchi. Trovo delle chiavi sopra le cassette delle poste. Sì, sono quelle del portone. I cronisti fanno queste brutte cose: apro e mi infilo. Salgo ogni piano controllando i nomi sulle porte finché non la trovo. Il cane della signora Gianna impazzisce, abbaia, odora dallo spiffero tra porta e pavimento. Gianna è gentile. Non mi invita a prendere il caffè ma ad allontanarmi. Quando torno giù aspetto un po’ e la chiamo al telefono. Riesco a spiegare le mie intenzioni e da allora non ha mai voluto rilasciare un'intervista ma almeno mi ha parlato. In questi mesi, quando, ricordavo in tv che l'omicidio di Boiocchi era ancora irrisolto mi scriveva: “Grazie per aver ricordato mio marito”. In uno degli ultimi messaggi che ci siamo scambiati in questi giorni mi ha scritto: “Al momento voglio solo ringraziare la Procura per il lavoro svolto e del risultato ottenuto”. Le ho chiesto se fosse una dichiarazione ufficiale, mi ha risposto di sì. È la prima.

Tutti sapevano
Le chiavi che quel giorno avevo preso per entrare nell'androne mi sono rimaste nella tasca del giaccone. Le ho rimesso dove le avevo trovate due settimane dopo, quando sono tornato a Figino per la messa in onore proprio di Boiocchi. Dentro la Chiesa di San Materno ci sono poche persone. Conosco le figlie di Vittorio. Una di loro la chiamo appena appresa la notizia degli arresti. Mi ringrazia della chiamata, mi dice che ha pianto, che stava quasi per svenire quando ha letto i titoli dei siti d'informazione. Loro già sapevano, e lo dicevano da due anni, che dietro all'omicidio di Vittorio ci fosse Andrea Beretta. In realtà, in determinati ambienti, tutti lo sapevano. Solo che la legge è infausta, ha bisogno di prove, e le prove gli inquirenti non riuscivano a trovarle. Da qualche giorno, però, si vociferava che qualche ordine di custodia cautelare fosse partito e un amico comune con un criminale molto potente nella Milano di oggi mi aveva fatto arrivare una voce: “Beretta ha detto tutto, lui è il mandante, a organizzare l'omicidio sono stati Ferdico e il padre, a sparare è stato un calabrese”. L'unica informazione sbagliata era l'ultima. Il calabrese, mentre andava sotto casa di Boiocchi, era caduto in scooter e si era infortunato a un braccio, ché qui passare da Gomorra a Scuola di ladri con Renato Pozzetto è un attimo.

San Materno assiste alla scena
Il 29 ottobre 2022 c’è Inter-Sampdoria. Boiocchi è al baretto di San Siro. È daspato, non può entrare allo stadio. Verso le 20 sale sul Vespone di Chicco De Nigris detto Chiccone e torna a casa. Ci vogliono pochi minuti. Nessuno li segue, non c'è bisogno: gli assassini sono già lì, gli organizzatori lo hanno visto partire del baretto. Chiccone lascia lo Zio sotto casa e gira subito a sinistra, costeggia la Chiesa, il motore dello scooter copre qualsiasi rumore e lui ha pure qualche problema di udito. Ad assistere alla scena, oltre al mosaico di San Materno che osserva il delitto dal medaglione sulla facciata della Chiesa, ci sono due testimoni. Sono entrambi stranieri, un tunisino e un marocchino. Vedono: una moto stile Kawasaki Ninja che arriva da una via posteriore. Sopra ci sono due uomini alti 1,60-1,65 con delle giacche nere e delle strisce blu sulle braccia. Hanno il casco. Uno di loro scende a fatica. Zoppica. Ha una Luger 9x19 in mano, fabbricazione cecoslovacca. Vittorio lo vede, gli va incontro. Mai mancate le palle, a Vittorio. “No no no” gli urla, come se avesse riconosciuto il suo carnefice. È stato così, ora sappiamo che è così. A sparare, secondo Andrea Beretta e la Procura, è Daniel D'Alessandro, nato il 20 giugno del 1995, detto Bellebuono, fedelissimo di Beretta, frequentatore della curva. Zoppica perché poco prima lui e il calabrese sono caduti. Bellebuono si è fatto male alla gamba, il calabrese al braccio. Meglio che spari lui, quindi. Per la prima volta a un uomo. Ecco perché nonostante la distanza ravvicinata lo manca. I testimoni vedono: che Boiocchi cade a terra. Che il killer risale sulla moto come se avesse qualche difficoltà, “sembrava un anziano”. Gianna era su con uno dei suoi nipotini. Pensa a dei fuochi di artificio. Poi sente le urla, si affaccia, torna dentro, non sa cosa fare, dice al nipote di restare fermo e scende giù. Vittorio morirà all'ospedale San Carlo.

L’uomo da Gerocarne
Ho dedicato due articoli a questo caso. Già nel primo scrivevo: Vittorio litigava con tutti, aveva molti nemici ma forse non bisogna andare troppo lontano per trovare il suo assassino. Giusto. Beretta ha scalato tutte le gerarchie in curva e quando Boiocchi è tornato a comandare l'ha tenuto accanto a lui. Beretta racconta che negli ultimi tempi litigavano spesso. Parla di tre litigi in particolare: per i soldi derivati dal business del merchandising, per i parcheggi, per visioni differenti. A un appuntamento, per chiarirsi dopo uno di questi litigi, erano presenti anche Gianna e Debora Turiello che secondo Beretta in borsa aveva una pistola. Quella volta finì bene, i due si abbracciarono e si lasciarono dicendo: “Ricominciamo da capo”. Poi però ci fu un altro scontro. Maurino Nepi, altro componente della curva, dice a Beretta: “C’è chi ti potrebbe risolvere il problema definitivamente”. Quel qualcuno è Marco Ferdico. Ferdico e Beretta non andavano d'accordo ma Nepi organizza comunque un incontro. Si trovano in un garage di Carugate. Con Marco c’è pure suo padre Gianfranco. Parlano del merchandising, del ticketing e di tutte le questioni commerciali relative alla curva Nord. Lo scambio è: noi parcheggiamo Vittorio, tu ci fai entrare nel tuo business. Beretta accetta. Affare fatto. Dopo un paio di giorni avviene un secondo incontro, a cui partecipa anche il padre della moglie di Marco. Andrea Simoncini è di Gerocarne, paesino di 1870 anime a 241 metri di altitudine, in provincia di Vibo Valentia. Giustificano la scelta dicendo che “è già esperto di queste azioni qua perché al suo paese sono in faida”. Per la Procura si riferiscono alla “faida delle Preserre”, zona del vibonese che comprende i comuni di Soriano e Sorianello, dove persiste un conflitto di ‘ndrangheta iniziato nel 1988 e non ancora concluso.

Gli indizi lasciati perdere dagli inquirenti
Con il Ford Tourneo di Beretta, Beretta e Ferdico vanno insieme alla commemorazione del capo ultras laziale Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik, altro omicidio ancora pieno di misteri. È nel corso di questo viaggio che progettano nel dettaglio il piano. Beretta comprerà lo scooter pagandolo 3200 euro. Non è un Kawasaki Ninja, ma un Gilera GP 800 grigio che verrà verniciato di nero sempre nel box di Carugate. I Ferdico noleggiano un furgone Ducato nel quale nascondere lo scooter dopo l’omicidio e che poi un complice, Cristian Ferrario, distruggerà andandone a denunciare il furto. Tutta l'operazione costa 50mila euro: 15mila vanno a Bellebuono, 15mila a Simoncini e gli altri 20mila, dice Beretta, “si sono persi per strada”. Verosimilmente se li sono tenuti i Ferdico e Nepi. In una intercettazione ambientale fatta a gennaio, quindi due mesi e mezzo dopo l’omicidio, Gianfranco è nella sua auto che conta 15mila euro e li consegna a D’Alessandro. Gli uomini della Mobile non collegano che possa essere il corrispettivo dell’omicidio di cui stanno cercando un colpevole. Gli investigatori, con il senno di poi, fanno caso a un'altra intercettazione che hanno ascoltato: quella di Giuseppe Idà, uomo molto vicino ad Antonio Bellocco, proprio al compleanno della figlia di Ferdico. Idà, offeso per non essere stato messo allo stesso tavolo di Marco, si lamenta dicendo: “Hai fatto quello che hai fatto e ti pare che sei forte!”. Il riferimento è proprio all'organizzazione dell’omicidio Boiocchi. Perché tutti in alcuni ambienti sapevano cosa era successo.

Il funerale dei valori ultras
Gli investigatori trovano tutti i riscontri ai racconti di Beretta: risalgano a chi ha venduto lo scooter, al noleggiatore del Ducato, all’hotel in cui hanno dormito Beretta e Ferdico a Roma, analizzano i tabulati telefonici di tutti e riescono a dedurre i giorni in D’Alessandro, Simoncini e Ferdico fanno i sopralluoghi per organizzare l'omicidio. Riescono a risalire anche ai cellulari criptati con le sim olandesi che i tre usano per non farsi intercettare. Le sim utilizzate da Simoncini e D’Alessandro il 29 ottobre saranno agganciate dalla cella telefonica di via Zanzottera, la strada dell'omicidio. I due Ferdico invece sono allo stadio a vedere Inter-Sampdoria. Appena si sparge la voce della morte di Vittorio Boiocchi, i capi della curva svuotano il secondo anello verde del Meazza. A gestire l'allontanamento dei tifosi ci pensano anche loro. In quel momento si celebra il funerale dei valori ultras.

Pentirsi da Padre Pio
Beretta distrugge il cellulare nel microonde e ha da subito degli atteggiamenti sospetti. Alcuni investigatori con i quali ho parlato in questi mesi mi hanno detto: “Non riuscivamo a incastrarlo, non ci davamo pace”. Beretta va a Pietrelcina, in quanto devoto a Padre Pio, per pentirsi di ciò che ha fatto e chiedere perdono. Qualche anno dopo si pentirà a tutti gli effetti. Prima di farlo però, in carcere, ne parla con la sua ex moglie. Che gli dice: “Non farlo, non passare per l'infame”. Beretta piange, cerca di convincerla: “Hanno detto che fanno una strage, tu mi devi ascoltare, questi qua fanno una strage, mi sono anche mangiato un dito dal nervoso”. E ancora: “Non hai capito che non esco più”, “esco morto, devi capire che esco morto”. Si riferisce ai Bellocco che vogliono vendicare Antonio, ucciso da lui con 21 coltellate dentro una smart fuori dalla palestra Testudo a Cernusco sul naviglio. Bellocco stava già pensando di ammazzarlo. Beretta avrebbe fatto la fine di Boiocchi. Glielo dice proprio Daniel D’Alessandro, e per questo quindi sta attento, gira armato. Diventa paranoico. Dentro quella smart non ce la fa più e sbotta. Dice a Bellocco: “Mi volete ammazzare”. Bellocco cerca di estrargli la pistola e sparargli, ma non ce la fa. Beretta è un gigante. Bellocco viene chiamato “U nanu”. Le immagini dell'omicidio le abbiamo viste svariate volte. Tutto questo succede sempre per lo stesso motivo: i soldi, il merchandising e gli affari della curva.

Storia di padri e figli
Beretta era stato abile dopo l'omicidio di Boiocchi: aveva unificato tutti i gruppi della curva sotto un unico striscione, così da massimizzare i benefici economici per il merchandising, che era gestito da lui. I conti a Bellocco e Ferdico non tornano. I due volevo spartirsi più soldi e infatti il calabrese era stato portato a Milano proprio da Marco. In tutta questa storia Ferdico è il vero cattivo: organizza l’omicidio di Boiocchi e trama quello di Beretta. Beretta grazie al pentimento avrà probabilmente diversi benefit, e tra qualche anno uscirà. Solo tra qualche anno sì, pur essendo il mandante dell’omicidio e avendone commesso un altro. Potrà uscire dal carcere con un nome diverso. Tra i calabresi c'è già chi dice che uno della sua stazza non passa inosservato. Della serie: dovunque andrà, ovunque si nasconderà, sarà sempre in pericolo. Anche Daniel D'Alessandro è in carcere. Ha una lacrima tatuata sul viso, sotto l'occhio sinistro. Tatuaggio che di solito si fa dopo aver ammazzato una persona. Lui se l'è fatto dopo aver ammazzato Vittorio Boiocchi. Anche questo è stato confermato da Beretta. Starà all'accusa dimostrare che tatuaggio e omicidio sono effettivamente collegati. Di sicuro, proprio nel periodo in cui è avvenuto l'omicidio, la sua fidanzata Margherita Giulia Jaquite era incinta e adesso lui, nonostante un figlio piccolo, è stato beccato in Bulgaria. Stava scappando. Questa è anche una storia di famiglie, di padri che hanno scelto di abbandonare i figli, oppure che li hanno costretti ad accettare una vita da clandestini o a vederli attraverso un vetro.

Le domande ancora aperte
È così che è andata. È così che Vittorio Boiocchi, lo Zio, è morto vittima di screzi da curva e per alcune migliaia di euro. Ripeto: se non si fosse pentito Beretta probabilmente ai nomi e ai dettagli di questa vicenda non ci saremmo mai arrivati. Non ci siamo ancora, a dire la verità. Ci saranno processi, condanne e assoluzioni. Tutto finito quindi? No, niente affatto. Il dolore per la famiglia Boiocchi sarà perenne. E poi ci sono cose della versione di Beretta che a loro non tornano affatto. Altra cosa: cosa diranno i componenti del direttivo della curva o gli storici Nino Ciccarelli e Franco Caravita? Davvero pensano di convincerci che non sapevano? Molto difficile. Anche la posizione della sorella di Marco Ferdico è delicata. Lei non è coinvolta in alcun modo ma lavora nel settore del corporate hospitality dell’Inter, ovvero quel settore che gestisce le relazioni con le aziende che comprano le cene, i posti vip allo stadio, gli abbonamenti per vedere le partite senza però essere sponsor della squadra. Da quando è scoppiata l’inchiesta Doppia Curva lei nell'area hospitality dello stadio non si è più vista. Resta il nome di un politico nelle carte. È un nome di peso, lo fa Beretta e poi nei verbali poi c'è un omissis. Infine, resta sempre la domanda delle domande. Ferdico recluta l’assassino in Calabria, il padre di sua moglie. Tra gli inquirenti e i ben informati si dice: “Non avrebbe mai potuto farlo senza il permesso della famiglia”. E quella famiglia a Vibo Valentia sono i Mancuso, non i Bellocco, che stanno in un’altra area. E perché poi, a omicidio avvenuto, permettono che a gestire tutto sia un Bellocco? C'è un’alleanza tra famiglie? Se così fosse sicuramente la collusione tra ultras e ‘ndrangheta sarebbe più pesante. Ma c'è anche chi sostiene che ormai l’ndrangheta, soprattutto al Nord, segua dei meccanismi, delle logiche e delle grammatiche diverse. Perché siamo a Milano e perché a Milano, lo abbiamo detto anche all'inizio di questo articolo, è tutto più fluido. Pure nella criminalità.

