“La tua infamità non appartiene alla nostra mentalità”, recitava lo striscione esposto fuori da San Siro e firmato dai tifosi interisti del Secondo Anello Verde. Il destinatario era Andrea Beretta, che poche ore prima si era pentito. Una notizia che per la verità in ambienti ultras era già circolata. Le forze dell’ordine avevano subito perquisito un deposito a Cambiago, in provincia di Milano, riconducibile a Cristian Ferrario, fedelissimo di Beretta. “Quelle armi non erano mie, non le custodivo, non sapevo nemmeno che fossero lì”, si è difeso l’ultrà. La polizia ha trovato tra le altre cose un kalashnikov, una mitraglietta, una carabina, fucili e tre bombe a mano. Di chi erano quelle armi? Appartenevano davvero alla curva Nord? Oppure quel deposito serviva a qualcun altro? Con ogni probabilità la polizia cercava la pistola con cui Vittorio Boiocchi è stato ucciso il 29 ottobre del 2022. Gli investigatori si aspettano da Beretta delle informazioni sull’omicidio del vecchio ultras. Ma torniamo ai tifosi rimasti in libertà. Sembrava che la fosse stata fata: Beretta è un infame, noi stiamo con Marco Ferdico e il clan di Rosarno, quello di cui Antonio Bellocco era esponente. Ma un altro comunicato diffuso oggi via social dalla pagina del Secondo Anello Verde sembra rimescolare le carte: “Nelle ultime settimane siamo stati travolti da un'ondata di fango senza precedenti, orchestrata da media avidi di sensazionalismo, pronti a sacrificare la verità sull'altare dell'audience. Tv e giornali parlano di noi quotidianamente, dipingendoci come criminali e associandoci a situazioni con cui non abbiamo nulla a che vedere, alla ricerca di qualche ascolto e click in più”. Un accanimento che, a dire degli ultrà, “ha contribuito al divieto di esporre, sia in casa che in trasferta, qualsiasi drappo appartenente di gruppi storici, oltre che lo striscione Uniti, Fieri, Mai Domi. Le nostre scelte, frutto di un nuovo inizio e di una volontà di cambiamento, sono state strumentalizzate e distorte, con il chiaro obiettivo di distruggerci e farci scomparire definitivamente”.
Poi si accenna nuovamente alla presa di distanza rispetto al passato e ai vecchi leader. Lo stesso messaggio che gli ultrà avevano lanciato con il primo comunicato (ne abbiamo parlato qui): “Tutte le recenti decisioni sono state prese perseguendo la rotta del cambiamento, talvolta in maniera impulsiva ma sempre con l'obiettivo di tracciare un solco tra noi e il passato. Fin da subito abbiamo voluto porre le basi per un futuro all'insegna della trasparenza e dei valori ULTRAS, senza alcuna dietrologia, prendendo le distanze da qualsiasi tipo di ambiente criminale e/o malavitoso”. Come a dire: dietro il tifo nerazzurro non c’è più posto per la ‘ndrangheta, ma solo per l’amore per la maglia. Una volontà che sembra contraddire quanto lo striscione esposto contro Beretta poteva far supporre. Il messaggio degli interisti prosegue: “Respingiamo con forza qualsiasi tipo di associazione a famiglie criminali, ribadiamo con fermezza la nostra totale estraneità ai fatti riportati dai media negli ultimi mesi. Combatteremo fino alla morte per onorare e preservare una storia ultras che ci precede da oltre 55 anni. Il passato non ci appartiene. Non tollereremo più questa caccia alle streghe”. Di chi erano quelle armi nel deposito? Quanto era profonda la fusione tra ‘ndrangheta e curva Nord? Quanti di coloro che sono rimasti liberi stanno ancora con Rosarno? Serve tempo per cercare risposte. Per il momento gli ultrà tengono fermo un punto: non c’è più posto per le ambiguità del passato. Forse per calmare le acque, forse per convinzione. Un loro leader, però, si è pentito. E da lui ci si aspettano chiarimenti su ciò che si nascondeva davvero dietro la Nord di San Siro.