È possibile nel 2023 scrivere un saggio divulgativo limpido, intelligente e originale sull’amore? Il tema capitale al centro di infinite umane trattazioni? Ebbene sì, e l’artefice di questo successo uscito qualche tempo addietro per i tipi di Sperling & Kupfer è Michele Mezzanotte, psicologo e psicoterapeuta (base: Chieti) che pubblica anche ottimi video sul proprio canale YouTube. Cerchiamo quindi di capire perché “Il vero amore (non) è un mito” sia un volume così necessario. Anche dopo che all’amore, la più gigantesca delle “questioni in sospeso”, sono stati dedicati milioni di analisi, versi, canzoni, romanzi e pellicole.
Toglici subito un dubbio: da quando le relazioni amorose sono diventate un terreno così impervio? Complice forse un’epoca particolarmente frenetica e competitiva, pare che oggi all’amore siano lasciate le briciole…
Mah, io sono sempre propositivo. E azzardo che forse oggi stiamo vivendo la migliore realtà possibile, da questo punto di vista. L’essere umano tende a migliorarsi, non a peggiorarsi, ma ciò non significa che il processo sia semplice o indolore. Anche se oggi dobbiamo affrontare nuovi problemi, non significa che prima le cose andassero meglio. Anzi. Le relazioni sono sempre state “pericolose”, c’è una letteratura sterminata a testimoniarlo. Semmai ora si è aggiunto un pericolo – apparentemente esterno alla dimensione amorosa – che invece tocca proprio quella sfera: all’interno di una società più individualista, pensare più all’io che al noi ci impedisce di arrivare all’individuazione (ciò che mi permette di crescere attraverso la relazione con l’altro) favorendo appunto una corsa prettamente individualista.
Viene infatti da chiedersi: quanto è controvento il concetto di “individuazione” in un’epoca devota alla costruzione dell’io? Pensiamo solo alla centralità dei social…
Sì, è un discorso controvento, sebbene, per un certo tipo di psicologia, lo sia da un secolo circa. Credo sia sempre più importante parlare di individuazione perché è diventato urgente riappropriarsi di quegli spazi relazionali che proprio i social tendono a sostituire/occupare.
Nel promuovere l’idea che si debba “esprimere sé stessi” – penso a tanti messaggi motivazionali diffusi nel web – ritieni che la psicologia abbia le sue colpe? Come se si fosse limitata ad affermare “esprimi te stesso” senza però aggiungerci “attraverso l’incontro con l’altro”.
Certo. Penso a un autore come James Hillman, psicologo analista junghiano che nei primi anni ’90 pubblicò un testo dal titolo “Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio”. Si chiedeva perché. Se davvero fossimo migliorati grazie alla psicologia. Credo che un tipo di psicologia spesso decontestualizzata si sia spiegata male. “Esprimi te stesso” significa tutto e niente. Quando puoi esprimerti? Cosa vuoi esprimere? Senza contesto di riferimento si rischia di non produrre messaggi universali, bensì superficiali. Che ciascuno può distorcere a piacere. Il messaggio generico, tutt’al più, può essere un input, un punto di partenza a cui fare seguire una ricerca che conduca a una scoperta, una rivelazione, assolutamente personale. Anche la scuola, a questo proposito, ha le sue responsabilità. Molti studenti hanno difficoltà a “fare proprio” un messaggio, un’idea.
Immagino che il web ti abbia mostrato più volte quanto facilmente possa essere equivocato un messaggio, un dato, un’informazione.
Sì, con qualche video pubblicato su YouTube, mi è capitato di essere equivocato. Con i reel, soprattutto; messaggi corti, condensati, che si prestano a interpretazione. Ho citato Jung: “A volte bisogna fare qualcosa di imperdonabile per poter continuare a vivere”. E nei commenti ho letto di tutto. Qualcuno ha scritto: “Ma come? Devo fare del male agli altri? E se finisco in galera?”. Era una sollecitazione, una provocazione. Speravo che ciascuno la interpretasse “per sé” e “su di sé”, non come un anonimo dogma. Jung intendeva dire che talvolta, per costruire qualcosa di nuovo e dirompente, devo provare ad andare oltre me stesso, forzare i miei limiti. Commettere qualcosa che per l’individuo “che sono di solito” potrebbe essere ritenuto imperdonabile, ma che mi potrebbe permettere di crescere ancora.
Anche di costruire una bella storia d’amore?
Certamente.
La limpidezza del tuo testo mi ha fatto pensare che, sull’imperituro dibattito relativo al “vero amore”, tu abbia voluto fare ordine. Togliendo di mezzo un po’ di erbacce.
Sì. Credo che il tema sia grande e ci sia anche la necessità di liberarsi di alcuni discorsi fallaci. In primis quello secondo cui una relazione è buona solo se mi dà piacere e benessere. L’amore – non l’innamoramento – è faticoso quanto la vita stessa. Una relazione con l’altro ci deve sfidare, deve forzare o rompere i nostri schemi. Un altro concetto da cui rifuggo è quello secondo cui ci siano relazioni “sane” e relazioni “malate”. Semplicemente, esistono alcune relazioni che funzionano e altre che non funzionano. Se metto insieme pizza e cioccolato l’unione che ottengo è pessima. Ma ciò non significa che pizza e cioccolato non possano trovare altrove migliori accostamenti. Difficilmente in una coppia c’è una persona “malata”. La persona malata sul serio fugge dalle relazioni.
Negli ultimi 15-20 anni è emersa prepotentemente la figura del “narcisista”, ormai divenuta popolare, consueta. Online si trovano vari comunicatori – non solo psicologi – che mettono in guardia (la donna, soprattutto) dal narcisista. Ma ce ne sono davvero così tanti in giro? Oppure battezzare qualcuno come “narcisista” è diventato una moda?
“Narcisista” è una delle tante parole che ha cambiato natura. Passando da un ambito specifico a una dimensione pop, ha smarrito le sue reali connotazioni. È accaduto anche a termini come “empatia”, “resilienza”. Se prendo come riferimento il DSM, spesso la persona che viene indicata come “narcisista” non è tale. Il narcisista è un vero e proprio psicotico. Di persone simili, in giro, ce n’è uno 0.05%. Hitler era un narcisista. Sono persone che hanno una relazione completamente distruttiva con la realtà. Ciò che invece si indica oggi con “narcisismo” è la “dinamica narcisistica” della coppia, ossia coppie in cui c’è una figura tendente al narcisismo (che quindi ha paura a relazionarsi e che mette in atto varie difese) e una figura che ha paura ad esprimersi. Due figure simili, insieme, creano una dinamica narcisistica. Quindi attenzione a quei divulgatori che snocciolano tutte le caratteristiche tipo del partner narcisistico. Finisce che a me si rivolgano persone che dicono: “Il mio partner è narcisista”. Ah sì?! E chi l’ha diagnosticato? Non è che se un partner non fa ciò che dici tu è narcisista. Queste diagnosi improvvisate, affrettate, collocano i soggetti della coppia in posizioni sbagliate che viziano ogni seguente analisi. È pericoloso. Non conta tanto dove sbaglia l’altro – sosteneva Jung –, ma dove sbagliamo noi. Perché sull’altro possiamo fare ben poco, mentre su noi stessi possiamo lavorare tanto.
Rifacendoti ai miti greci, dedichi una sezione ai tipi di coppie. Per cui abbiamo la coppia Apollo, la coppia Dioniso, Estia, Deus, Artemide e così via. Non indichi una coppia migliore di un’altra, semplicemente le caratterizzi. E per ogni coppia esiste una versione buona – potremmo dire “sana” – di quella coppia e una versione cattiva, “tossica”.
Di più. Le coppie possono essere “prevalentemente Apollo” o “prevalentemente Estia”. Elenco varie dinamiche di coppia che possono essere tutte presenti, potenzialmente, in ogni coppia. Solo con gradazioni diverse. Oggi i gradi che si esprimono di più sono quello apollineo (narcisistico), il grado Persefone (dipendente), il grado Ade (parziale). Ecco, oggi ci sono molte coppie “parziali”: la relazione spesso non è più il centro della nostra vita, ma una parte della nostra vita.
In certe dimensioni – pensiamo ai separati con figli – la relazione “parziale” sembra quasi un obbligo. È possibile avere relazioni forti, sane, anche in condizioni simili? Dovendo magari lottare con uno/due lavori e avendo a che fare con un ex marito o una ex moglie?
Sì, è possibile. Però è più complicato. Quando il tempo a disposizione è poco bisogna essere consapevoli della necessaria “parzialità” della relazione (non posso non tenere conto che ho un figlio, da un’altra relazione, a cui dedicare tempo e amore). Devo quindi coordinare le mie varie vite. Cosciente dei limiti della relazione e della necessità di utilizzare molto bene il mio/nostro tempo a disposizione.
Pensando alla psicologia “divulgata” vengono in mente alcune figure cruciali: Vittorino e Stefania Andreoli, Raffaele Morelli, Paolo Crepet. Quanto ti senti affine a questi specialisti?
La psicologia non nasce per tutti. Poi, pian piano, questo assioma è stato rivisto. La semplificazione dei messaggi – nell’ottica di arrivare “a tutti” – è sempre stata un problema, vedi appunto l’esempio junghiano di prima. Il lavoro che hanno fatto i primi divulgatori citati, a cui aggiungo Umberto Galimberti (anche filosofo), è stato un lavoro enorme. Morelli vanta un forte retroterra junghiano, Crepet un retroterra psichiatrico e psicanalitico importante. Sono stati capaci di comunicare in modo semplice concetti delicati, vitali. Non dimentichiamo che quando Freud e Jung studiavano i “loro” classici, poi li ritraducevano nella lingua dell’epoca, affinché fossero pienamente comprensibili. Quindi mi sento particolarmente vicino alle figure citate soprattutto quando penso allo sforzo della divulgazione. Più lontano quando sono chiamato a misurarmi con i mezzi e i linguaggi di oggi. Per cui nei reel di YouTube, a differenza di quando scrivo, sono spesso ironico. L’ironia, storicamente, non è stata un’arma della psicologia, mentre invece oggi è possibile usare l’ironia nella cultura, i linguaggi odierni lo permettono. Questa è una rottura evidente rispetto ai divulgatori più anziani.
Rilevi un uso eccessivo della psicologia? Come se la psicologia venisse scomodata anche per questioni che in fondo non la riguardano…
Certo. La psicologia è uno strumento. Come il fuoco, la medicina. Non devo inflazionarla, posso utilizzarla solo in alcuni momenti della vita. Non può risolvere ogni problema, la vita non funziona se tutto diventa oggetto di psicologia.