Prologo. Dopo aver letto questa intervista Morgan mi ha scritto il seguente messaggio: «Mi dispiace molto ma non sono attratto da questa adolescenziale costruzione del mito sregolato. Te lo ho detto chiaramente: questo atteggiamento è ciò che contribuisce a rovinarmi gratuitamente l’esistenza, e tu vuoi far parte di ciò. Fai finta di aver compreso ma la realtà è che facendo così dimostri di non aver compreso nulla . Avresti potuto essere totalmente diverso nell’impostazione, maturo, ma hai fatto, come troppo spesso mi accade, una cosa grottesca, che non riporta me tra gli intellettuali d’oggi e tantomeno tra i musicisti e piuttosto che raccontare al mondo quanto è intelligente quanto è bravo quanto è diverso dai coglioni, sa solo dire quanto è folle».
Intervista a un fantasma
Devi entrare nel suo flusso. Lasciarlo parlare, seguire i giri della sua mente e il battito delle parole, passare anche tu dalla paranoia all’ironia, dalla depressione alla genialità, dal terreno al filosofico con la sua stessa disinvoltura, fregartene se invece di rispondere alle tue domande va avanti con il proprio ragionamento, zittirti e ammirarlo quando nel mezzo di un discorso si gira e suona il piano per minuti, minuti e minuti, impazzendo e scuotendo dita e testa e capelli. E poi, dopo che sei entrato nel suo flusso, nel suo mondo, nel suo essere, solo allora, forse, puoi capirlo. Dovrebbe comporre e scrivere poesie, Marco Castoldi in arte Morgan, e basta. Vorrebbe misurarsi solo con l’Arte, con i grandi maestri, quelli che ha conosciuto come Battiato ed Eco, e quelli che lo hanno ispirato, come Baudelaire e Rimbaud, purtroppo si ritrova invischiato in polemiche, spesso è lui stesso a crearle per amore della provocazione e per bisogno di attenzione, ma, mi scrive sempre dopo aver letto l’intervista, “le mie non sono polemiche ma risposte ad un mondo sterile che dovrebbe finalmente cogliere che nessuno più di me si dedica all’arte anziché perdere tempo”. Morgan è figlio e vittima del palco, per lui causa di slanci, dipendenze e cadute. Il palco lo deve ringraziare e maledire. Quello di Sanremo, per esempio. Si presenta con cappello da pirata e un sacchetto di gommose zuccherate, te le offre, poi chiede un trucco tipo vampiro, o meglio «fantasma», e un po’ di vino. Gli offrono del Moscato da pochi euro, lui si accende una sigaretta. La prima.
Sei sparito per quattro giorni e quando ci siamo sentiti e ti ho chiesto come stai, mi hai risposto: «Male, molto male».
«Sì, che dovevo dire? A te non capita mai di stare male?».
Sempre.
«E allora? Il problema è dirlo. Oggi ci sono dei problemi con le parole. Io amo le parole. Sono importantissime. Io ho scoperto la violenza delle parole in concomitanza col suicidio di mio padre».
Avevi 16 anni…
«Il suicidio di mio padre mi ha fatto elaborare un senso profondo del comunicare, dell’esprimersi, del liberarsi. Ho cominciato a lavorare sulla sensibilità, che è un’anima dolce, gentile, femminile, che dà il senso del creare un’opera d’arte, che sia pittura o una canzone. È il gesto dell’amore. Quindi la poesia, la parola, in questa dimensione, diventa il senso della vita, è un aggancio, è la salvezza. “Dì solo una parola ed io sarò salvato”, non è così? Dal vangelo di Giovanni. Quella parola non ho mai capito quale fosse…».
Oppure: «Nel principio era il verbo».
«Wow. Però Davide Rondoni, il poeta, mi ha spiegato che il verbo non è una parola ma un movimento, un vento, un magma circolare da cui si genera tutto. Oggi la parola è un fantasma, è sotto assedio. Ma io voglio parlare del ghosting…».
L’arte di annullare una persona.
«Io lo sto subendo dalla persona che più in assoluto mi faceva sentire stimato e rispettato. Il nostro era uno specchiarsi meraviglioso e vedersi belli negli occhi dell'altro, era una relazione con una compatibilità naturale, totale. Per me è stato spaventoso, traumautico che per ragioni incomprensibili tutto questo si sia improvvisamente tramutato in un disprezzo tale da annullarsi completamente. Sfido chiunque a reggere una cosa simile, è inspiegabile, logorante».
Ne parli spesso di questa donna. Ma chi è?
«Ho provato ogni modo per sentirla, le ho scritto tanto».
Anche negli ultimi 5 inediti respinti da Amadeus parli di lei…
«Ma è tutto. Io la amavo… Lei deve aver subito qualcosa che non so, un incantesimo, è inspiegabile quello che è successo, è un incubo. Nessuno è riuscito a raggiungerla. Paradossale che lei guardi quello che scrivo io e io non possa farlo e che sia stato denunciato per stalking. Ma non sono mai andato sotto casa sua, le ho solo scritto, ma dov’è l’insistenza? Mai avuto risposte. Questa cosa mi ha scatenato un’inquietudine gigantesca, perché improvvisamente non posso più parlare con la persona con cui parlavo sempre. Lei era il cento per cento delle mie conversazioni, le nostre chat su Whatsapp erano diventate un romanzo di 500 pagine a settimana. Abbiamo fatto dieci anni così, scrivevamo e componevamo insieme, con naturalezza».
C’era anche un rapporto d'amore?
«C’era tutto, era la mia migliore amica, eravamo amanti, in libertà. Poi un graduale allontanamento, fino a quando mi ha bloccato. Ho provato a chiamarla ma lei, subito: “Ti denuncio”. Ho pensato anche che abbia affrontato un percorso terapeutico indotto, forzato, che l’ha portata a disinnamorarsi. E dal 25 aprile del 2020 io per lei sono diventato angoscia».
Quasi un anno…
«Ora vivo in questa distanza romanzesca, in questa idealizzazione folle che io costruisco dentro il mio racconto, che è un’assenza assoluta, e ho costruito un’opera gigantesca che è narrazione, fiaba, dialogo elettronico, ambient, voci, esperimenti, canzoni… Tutte queste cose messe insieme sarà Morgangel, credo di aver superato dieci ore di musica. Dovrò farne un serial a episodi, è la mia autobiografia. Ma devo stare attento perché io non sono autorizzato a parlare di lei, come se Petrarca non avesse potuto parlare di Laura o Dante di Beatrice. Io sono lo stalker della musa, non è moderna questa cosa? Ho pure interpellato Francesco Alberoni, grande conoscitore di queste dinamiche».
Il sociologo. Cosa ti ha detto?
«Ho passato un agosto tristissimo, totalmente silenziato a Milano e con l’angoscia nel cuore, consolato da Alberoni, che mi spiegava: “L’innamoramento consiste in tre dati di fatto: l’idea del futuro, il pensiero ossessivo, il sogno a occhi aperti”.
Bellissimo e verissimo.
«Ha capito che stavo soffrendo, il ghosting è un’uccisione psicologica, è protratto, è un insulto costante, allucinante, ti fa mancare il fiato».
«La follia è l’unica via per la felicità» hai detto una volta. Adesso quanto sei folle e quanto sei felice?
«La mia è una follia divertente e creativa, è bizzarria, euforia, ma non ho alcuna turba psichica. Ho fatto spesso test psicologici, perché in occasione di affidamento di minori mi è capitato, e sono sempre, tragicamente, risultato privo di turbe psichiche. Non sono aggressivo, non sono istrionico, non sono bipolare, non sono narcisista né maligno… Se io sono sano, cazzo c’è un problema! Sono gli altri che si adeguano, che resistono, che sono tutti fuori come delle mine».
Resilienza…
«Ecco, ma che parola è?»
Resistere in condizioni avverse, l’anticamera del controllo sociale. Perché resisti e non ti ribelli. Ti adatti.
(Si accende un’alta sigaretta) «Adattamento è una parola importante, perché l’adattamento è gravissimo, non bisogna vantarsi dell’adattamento. Il disadattato è quello sano. L’adattato è uno che è stato frustato talmente tante volte che non sente più il dolore, il disadattato no! Il disadattato protesta, si lamenta. Il disadattato è una persona libera. Pensa che deformazione ha la parola adattamento quando parli di un bambino: “Ah è così bravo, lo metti lì e non fa niente”, oppure: “Ah io mi so adattare benissimo!”. Non ci si deve vantare di adattarsi».
Hai preso il nome Morgan da un pirata, un corsaro.
«Il libro su di lui me l’ha regalato Dori Ghezzi quando è morto De André, La Santa Rossa di Steinbeck, in cui si parla di Henry Morgan, e dentro c’erano le note scritte a matita da De André stesso, io ero giovane, e da giovane sono stato sempre in mezzo a una generazione di narratori fantastici. La Pivano, Battiato… Con lui mi sono divertito a fare pranzi e cene di parole».
Meraviglia.
«Una volta sono andato a pranzo in una giornata bellissima al Buon Convento in Corso di Porta Romana con Battiato e il filosofo Manlio Sgalambro, autore di molti suoi testi. Io ero a palla. Appena ho guardato la porta d’ingresso del ristorante ero emozionato, sono entrato e da lì ho visto le sagome di Battiato e Sgalambro arrivare al di là della porta a specchio del locale. Ci si dava del lei, erano ironici di brutto… (Fa la voce di Battiato e la imita molto bene). Franco mi diceva: “Dove andremo con questi nuovi cibernetici,viviamo nel neoprimitivismo, ma che ci importa della letteratura gotica, che ci importa della svastica…”, poi si rivolgeva a Sgalambro: “Lei Manlio trascura il fatto che la simbologia è molto più antica perché dobbiamo risalire ad un altro tipo di cultura”. Poi mi chiedeva (lo imita ancora): “Ma di questo Lou Reed che ne pensa?”. Non mi faceva nemmeno rispondere (ne continua a imitare la voce): “Lou Reed è uno che sputa quando canta, trascina sé stesso dentro la canzone, diventa un fantasma di sé, però ci sono almeno due pezzi dei Velvet Underground come Sunday Morning che sono illuminanti».
Per te era un parco giochi.
«Dopo è uscito il brano Shock in my town. Nel brano firmato da loro due ci stava tutta la conversazione di quel giorno. Sono andato da Battiato a Catania per l’album Gommalacca, dipingeva con un grembiule da venditore di frutta e stivali da pescatore, sul balconcino, io lavoravo a fare gli arrangiamenti. Ogni tanto cambiava due tre note, spostava un semitono, (imita la sua voce) “questo più su, no più giù, no più su, un poco più giù, ecco, ecco, così”. E con noi c’era anche il cantautore Juri Camiscasca, faceva le dorature dei quadri, era uscito dal monastero dopo 11 anni di clausura ed era un’altra presenza allucinante. Amava tutto quello che facevo. Gli facevo un accordo e gioiva. Gioiva per ogni cosa. Quel momento fu storico. Battiato mi manca tantissimo adesso».
Ma come ci sei arrivato a lui? La tua adolescenza è a Monza.
«Ho iniziato a scrivere musica a 5 anni. Un giorno telefonò il maestro di musica in prima media a mia madre, e disse che era preoccupato per me: “Suo figlio è troppo dissonante”. E mio padre: “No, mi piace molto di più quando è dissonante”. Mia madre allora mi ha portato da un’inquisitrice giapponese per farmi esaminare e che mi ha detto di suonare i pezzi dei Beatles in chiave moderna. Un’allucinazione dietro l’altra. Quindi ho fatto opera di composizione. E nel 1995, Battiato, dopo il concerto del primo maggio, entrò nel camerino dei Bluvertigo e disse: «Volevo conoscerti perché quando canti mi sembro io».
Tuo padre che faceva?
«Il falegname. Pinocchio».
E la mamma?
«La maestra».
A 16 anni facevi l’uncinetto con tua madre.
«Ma questa l’ho detta su Clubhouse?»
No, ma lì ho sentito che giocavi a tennis.
«A 16 anni ho fatto i campionati nazionali, ero forte, sono arrivato terzo. Poi ho dovuto scegliere se suonare il piano o continuare, non ce la facevo a fare 8 ore di piano e 4 di tennis».
Primo ricordo?
(Si accende un’altra sigaretta, si chiude su se stesso, pensa) «È audio, sono nel grembo e c’è un suono calmante, rumore di pioggia ovattata. Un primo ricordo vero non ce l’ho, potrebbe cambiare sempre, ricordi di gatti, di angoli della cameretta, odori, la moquette anni 70, la moquette in Italia non c’è più, io le adoro, vorrei vivere in una casa nel bosco, alla Tolkien, freddo fuori, caldo, caldissimo dentro. Legno e fuoco. Pinocchio. Bel romanzo, tosto, Pinocchio eh?».
Cosa stai leggendo adesso?
«Un libro sulle marionette che ho comprato a un euro in una bancarella. Non ha un autore, è graficamente fantastico. Ci sono le storie di vecchie famiglie di Milano che avevano le marionette».
Parli di Pinocchio, leggi un libro sulle marionette, tutte cose che hanno a che fare proprio con il lavoro di tuo padre...
«L’ho visto che mi salutava dalla finestra, e poi non l’ho più visto vivo, ma morto in un bosco. Era il 1981. L’esistenza mi è piombata addosso, pesantemente».
Ti senti decontestualizzato dal 2021?
«Mi sento un fantasma, lo sono in tutto. Discograficamente, sentimentalmente. Il grande escluso. Amadeus pure ci ha messo il suo. Posso avere un altro po’ di Moscato?»
Fiorello ti ha citato nella pubblicità di Sanremo.
«Non mi hanno avvisato né pagato, boh».
Ti faccio dei nomi e mi rispondi secco. Fedez.
«Lo vedo bene con un’Ibanez. Se Ibanez fosse una modella… invece purtroppo è una chitarra».
Fulminacci.
«Fulminacci non è malissimo».
Madame.
«Pare che piaccia».
Willie Peyote.
«Bravissimo, è un mio amico».
Ora ti leggo una poesia: “E io mi sono convinto ormai che se una donna fa giravolte allora ha capito il mondo, e se non ha capito il mondo almeno ha capito il mio”.
«Sembrano dei pensieri da scuole medie…».
Sono di Giò Evan, altro cantante ammesso a Sanremo 2021.
«Non mi piace, non ci possiamo capire. Ma può essere una svista, un errore di gioventù, sarà alle prime fasi di scrittura».
Orietta Berti?
«La vedrei bene con un arrangiamento heavy metal, Orietta Berti metal sarebbe fantastica. Ha una voce pulitissima, è donna di spirito, coi Bluvertigo ci siamo divertiti molto con lei».
Hai annunciato la reunion.
«Sì, li ho sentiti ultimamente, vorrei fare un album nuovo, chiamarlo Bluventuno, una roba facile, basso, chitarra, batteria e Andy con le sue diavolerie, tastiera e sax, e poi orchestra sinfonica tipo Deep Purple, rock antiquato, d’antiquariato».
Lo vedrai Sanremo quest’anno o lo snobbi?
«Dipende da cosa devo fare quelle sere. Vorrei fare delle dirette Instagram e commentarlo live, oppormici, anzi fottermene!»
Non posso esimermi: Bugo?
«Con Bugo purtroppo non ci ho più parlato, mi ha fatto un po’ di ghosting anche lui. So che farà il duetto con i Pinguini Tattici Nucleari… Dovrebbe fare la mia canzone Altrove ma purtroppo non arriverà mai a sti livelli, se lui faceva la cover di Altrove era finita, giuro, vinceva lui. Ma lui s’è preso male davvero. Assurdo, è un ipocrita, anzi un hip-pop-crita. Il problema degli italiani? Non hanno senso dell’umorismo».
L’hai più sentito Amadeus dopo le vostre polemiche?
«No, mi ha bloccato. Scherzo, a me piace scherzare, ridere. Per me è un bravo ragazzo. Non ho motivi di avercela con lui, credo sia difficile stare dentro le logiche di queste robe, avrà avuto delle pressioni, sicuro».
«Io sono un genio» hai detto molti anni fa.
«Oggi su Clubhouse ho detto: “Io sono un’ape che guarda l’alveare dall’alto, guardo gli altri perché volo molto più in alto e perché me lo sono guadagnato sto volo”».
E da lassù cosa hai visto?
«Che i più bravi di tutti sono i tassisti, perché parlano e sanno le storie, fanno una vita di relazione, poi ci sono gli insegnanti e i ricercatori. I pezzi di merda sono i web manager, i web designer, i social manager, che non si sa cosa fanno, che parlano di monetizzazione, di conversione. Il tassista ti parla di Italo Svevo, della coscienza di Zeno, e ti porta pure dove gli dici te. Quelli lì non parlano di niente. C’è un tale che si chiama Montemagno. Ma chi cazzo è? Non so chi è. È insopportabile. Le cose belle che puoi vedere sul web sono poche».
Quali?
«Un dibattito tra Chomsky e Foucault, la conferenza di Chomsky Justice vs Power, il simposio dello scienziato Douglas Hofstadter che racconta l’evoluzione e ti porta a capire che l’intelligenza artificiale non sostituirà mai l’uomo. Di Hofstadter avevo letto che avrebbe insegnato un anno a Bologna e mi sono iscritto al suo corso di semiologia, lo introduceva Umberto Eco. Uno spettacolo. Nell’ultima lezione ci disse: mi è morta la moglie, voglio solo essere amato. Cioè, uno scienziato che in italiano perfetto ti fa capire che ok l’universo, la fisica e il resto, ma la cosa più importante è sentirsi amati. Eco diceva: “A quest’uomo non gli perdonerò mai di non sapere l’aramaico”. E sosteneva che la Divina Commedia tradotta in inglese faceva cagare e che solo in russo si poteva tradurre Dante» .
Tu chi hai amato di più?
«Inevitabile dirti che quest’ultima le straccia tutte, compresa la famosissima Asia, che è stata una grande distruttrice, una divoratrice, una mantide religiosa per eccellenza, che mangia la testa degli uomini. (Si mette al piano). Dice: «A me piace la musica russa. Senti questo pezzo di Skrjabin». Lo suona per cinque minuti. «Cioè questo nel 1901 che cosa scriveva? Pare jazz. Sembra Tenco. Però è il 1901, suo figlio è morto a 11 anni. È morto nel lago ghiacciato. Allucinante come era forte Skrjabin».
Tu come vorresti morire?
«Io sono morto già da tempo… Vorrei morire in scena, per esempio Carmelo Bene voleva morire in scena fumando e bevendo una spremuta di mandarino. Era convinto di morire perché aveva avuto un infarto. Me l’ha raccontato la figlia del medico che era stato chiamato per soccorrerlo. Era tutto buio. Il medico era entrato nella stanza e ha visto solo la luce della sigaretta accesa, Carmelo era nudo a letto».
A che età vorresti morire?
«Prima di morire vorrei dirigere un’orchestra, e poi vorrei fare un po’ di cinema musicale»..
Com’è la vita dopo la morte?
«È uguale, io credo di poter pensare di morire di suicidio, possiamo ipotizzarlo».
È vero che hai tentato il suicidio.
«Per me il tentato suicidio è come se fosse una cura, lo tento un paio di volte al mese…Secondo me andrebbe somministrato come cura antidepressiva un paio di volte al mese» (ride).
Come?
«È un pensiero, è il pensiero della morte, ma in realtà è un grido di aiuto. D’altra parte se vivi nella situazione del silenziato l’unica chance che hai per farti sentire è il racconto di te stesso, no?».
Chi sei stato nella vita precedente?
«Un cane. Coi cani vado d’accordissimo, per me sono fratelli. O forse un corvo. Dario Argento m’ha raccontato che i corvi parlano. Mi disse che una volta aveva 500 corvi sotto mano, che doveva girare una scena di Opera, e si è cagato addosso perché questi parlavano. T’immagini 500 corvi che parlano? Dario Argento che ha paura è una bella immagine».
Com’era andare alle cene di Natale con Dario Argento?
«Ricordo una Pasqua… Erano venuti lui e Daria Nicolodi, una donna di una gentilezza e bellezza, coltissima, a casa di mia mamma. Dario si addormentò su una sdraio in giardino guardando un albero. Noi eravamo lì e ci chiedevamo: “Cosa facciamo?”. Daria ci diceva di non svegliarlo, che se dormiva voleva dire che stava bene. Si è svegliato e poi siamo andati a piedi a vedere la casa che stavamo costruendo. E lui: “Guardate questa luce, è la northern light, Bergman mi diceva che era così la luce del nord…”. Bergman, capisci? Per Dario Argento la luce di Monza era la northern light: bellissimo. È uno che si spaventa. Mia mamma gli aveva regalato dei guanti neri, e lui morì di paura, perché i guanti neri per lui sono simbolo di terrore. Nei suoi film nelle scene di omicidio arriva l’attore con i guanti neri…»
È vero che hai problemi alle corde vocali?
«No. La voce è una cosa viva, la mia voce ha le rughe, si sente… (Prende il cellulare, legge versi di Petrarca): “Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono di quei sospiri ond’io nudriva ‘l core in sul mio primo giovenile errore quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono”. Cioè, aiuto, i versi più belli che sono mai stati scritti. Vedi la differenza del suono che c’è con Dante? “Nel mezzo del cammin di nostra vita, mi ritrovai per la selva oscura…”. Senti l’accento, la rima, come cambiano? Dante è endecasillabo, è più secco, non è rotondo come Petrarca. Purtroppo della poesia non gliene frega niente a nessuno».
Cosa vorresti scrivere sulla lapide?
«Un epitaffio di Edgar Lee Masters… Devo dimagrire, voglio rimettermi in forma. Voglio fare un momento di detox totale e andare in America» (si accende quella che sarà la decima sigaretta).
Quanto fumi al giorno?
«Non so, butto via le sigarette dopo due, tre boccate. Battiato amava tantissimo fumare (ne imita la voce, sempre meglio): “La donna quando fuma è irresistibile. Ci sono due cose irresistibili: la danza del ventre e le donne che fumano”. Torna a suonare. Stavolta Beethoven. Si agita, impazzisce, quando si ferma sorride.
Hai anche detto che assomigli a Gesù Cristo.
«Certo, assomigliamo tutti a Cristo nella misura in cui siamo condannati a essere uomini e donne. Cristo è così amabile, così dolce, così ingiustamente condannato che non si può accettare che sia crocifisso, bisogna smetterla con questa crocifissione».
Ti sei mai scoperto a pregare?
«A Capodanno sono andato in Chiesa, ho chiesto di essere confessato e il parroco mi ha mandato da un suo emissario di 72 anni, simpaticissimo, e gli ho fatto: “Be’, hai soltanto una decina di anni ancora”. E lui: “Ma sei un po’ stronzo”.
Che peccati gli hai raccontato?
«Tutto, tutto… Gli ho raccontato del mio ghosting, a un certo punto questo prete si è commosso e mi ha fatto: “Io ti ringrazio, sono contento di averti conosciuto oggi”. Si è messo a pregare per me e ha aggiunto: “Preghiamo per questa persona che non ti capisce…”. Io invece gli ho detto di pregare per chi non ha da mangiare, per quelli che soffrono veramente di fame. Alla fine abbiamo pregato per il perdono. Il perdono è l’inizio, non è la fine».
Tuo padre si è tolto la vita a 48 anni e tu hai detto che arrivato alla sua stessa età lo avresti perdonato.
«Ne ho ora 48, sto passando attraverso questo portone che è delicato, che è potentissimo, amo la parola perdono perché c’è dentro la parola dono, non c’entra nulla ma è bello pensare che perdonare è un dono. Sì, lo perdonerò. E perdonerò tutti».
Epilogo. Prima di andare via Morgan sfila una quaderno senza righe dalla tasca. Le pagine sono tutte bianche, tranne le prime due. Comincia a declamare ciò che ha scritto. Comincia così: «Ancora una volta precipitare, e io, forte della mia antica…». Purtroppo il suono, nella registrazione, è confuso, non si capiscono più le sue parole. Peccato, perché era tutto davvero molto bello. Gli ho chiesto via whatsapp di rileggermelo e mandarmi un vocale. Mi ha detto: «Ora ti mando l’audio». Non è ancora arrivato.