Ho trovato la vita perfetta, il lavoro ideale: non fai un cazzo, hai potere ma non responsabilità, guadagni molto, sei in una posizione corruttibile (metti che vuoi arrotondare) e come se non bastasse hai la scusa inattaccabile per farti una seconda vita con tanto di amanti, assistenti, portaborse e autisti. Ok, vi chiedo scusa. Questo reportage avrei dovuto scriverlo prima delle elezioni europee. Ma forse, col senno di poi, è meglio così, altrimenti la percentuale di astensionismo sarebbe stata ancora più alta. Ho vissuto tre giorni come un parlamentare europeo e ora vi racconto cosa andrà a fare davvero la persona a cui avete dato la vostra preferenza. Lo ammetto: per tutto il viaggio in auto, da Milano a Strasburgo, ho pensato di arrivare in un mondo ingessato, serioso, in cui avvertire l’insostenibile peso di decisioni destinate a influire sulla quotidianità di popoli interi. Invece no, immaginate un Erasmus sballato, che dura tre giorni ogni settimana, dove gli uomini e le donne invece di essere studenti senza un euro in media hanno tra i cinquanta e i sessant’anni e un’ottima disponibilità economica. E che mentre Israele rade al suolo Rafah se ne stanno rinchiusi in una stanza cercando di convincerti che il pecorino romano migliora l’erezione oppure ti presentano lobbisti che ti raccontano la verità sul giro di tangenti dietro la pesca nel mediterraneo. Signori, mettetevi comodi: l’effetto è grottesco, surreale.
Lo stipendio base è 7.400 euro. Più 4.500 euro per le attività locali, infine le diarie: 350 euro per ogni giorno di presenza. Significano circa 15.000 euro al mese
1. Il viaggio parte male, malissimo. Mi accorgo subito che Gabriele Micalizzi, il fotografo con me, sul navigatore ha inserito Bruxelles come destinazione. «Però noi dobbiamo andare Strasburgo» gli dico. Gabriele Micalizzi è un reporter di guerra vivo per grazia ricevuta. Nel 2019 è stato colpito da un razzo RPG in Siria e tra le varie conseguenze riportate c’è quella che ha perso quasi completamente l’udito (ne ho scritto pure qui).
«Cosa?» risponde infatti.
«Gabri, noi dobbiamo andare a Strasburgo, non a Bruxelles».
Lui si gira di scatto verso di me: «Che cazzo hai detto?».
Urlo: «Dobbiamo andare a Strasburgo, non a Bruxelles».
Gabri mi guarda con un sorriso che pare una paresi: «Vabbe’, tanto Strasburgo e Bruxelles sono vicine, no?». «Eh, no» gli dico «sono cinque ore di distanza». Esplode, bestemmia, accelera e rallenta, sbaglia strada mentre cerca di chiamare la sua assistente: per il ritorno, a causa di un impegno a Torino, si era fatto prenotare un aereo, peccato però che aveva sbagliato la città di partenza. «Ma quante minchia di sedi ha questo cazzo di Parlamento?» mi chiede.
Ecco, è questo il punto: quasi tutti, quando sentono nominare l’Unione Europea pensano solo e soltanto a Bruxelles, dove c’è la Commissione; invece l’attività parlamentare si svolge a Strasburgo. Immaginate quanti soldi servono per trasferire ogni volta tutte le persone e tutte le loro valigie da una parte all’altra e poi dite una cifra. Non ci andrete nemmeno vicini. Nel frattempo, mentre cerca di cambiare il volo, Gabri ha ripreso con le bestemmie, sbagliamo strada un’altra volta, sfioriamo due incidenti. L’inizio è sempre indicativo di come andranno a finire le cose, sempre. Da Milano a Strasburgo sono cinque ore mezza di viaggio. Noi ce ne mettiamo nove.
2. I parlamentari a Strasburgo lavorano dal martedì al giovedì e noi ci arriviamo per assistere all’ultima plenaria dei deputati prima delle nuove elezioni.
Sistemati i bagagli nel bed and breakfast, avverto Dino Giarrusso del nostro arrivo. Dino, eletto tra i 5 Stelle e poi passato tra gli indipendenti, è uno dei pochi che negli ultimi cinque anni ha affrontato il ruolo del parlamentare con rigore. Ci diamo appuntamento per la mattina successiva. Sarà lui il nostro Cicerone. A Strasburgo piove. L’architettura di palazzi, monumenti e chiese è gotica, le strade sono vuote, silenziose e poco illuminate. In quest’atmosfera stonano i Carrefour con le insegne verde fluo: in un chilometro ne vedo almeno tre. Mi stupisce l’acustica dei ristoranti e dei pub: sono quasi tutti pieni eppure, da fuori, non si sente niente. Gabri e io scegliamo un ristorante italiano, il ministro dell’agricoltura Lollobrigida sarebbe orgoglioso di noi. Anche se ad attirarci non è stato tanto il richiamo del nostro senso di sovranità alimentare quanto il culo della cameriera. Siamo sempre peggio di ciò che crediamo di essere. Ma un bel culo, diceva Tinto Brass, non tradisce mai.
3. Alle 9 di mattina del mercoledì, Riccardo Sciuto, il policy advisor di Dino, insomma il suo assistente, ci aspetta fuori dal Parlamento. Ha un cappotto che fa venire voglia di accarezzarlo, in testa indossa una coppola, ha la carnagione scura con gli occhi chiari e un accento siciliano. Un tipico normanno. Sciuto ci porta a fare gli accrediti. La procedura è lenta e mentre aspettiamo il responso gli chiedo: «Ma tu di dove sei esattamente?». Questa abitudine di chiedere sempre la provenienza delle persone con cui mi relaziono l’ho imparata da mio padre: conoscere le origini di una persona permette di trovare argomenti di discussione su più temi, come la storia, il cibo, lo sport. O può far scoprire piacevoli coincidenze, tipo lontane parentele o amicizie in comune. «Di Catania» risponde Sciuto. Gli dico: «Uno dei migliori giornalisti di MOW è proprio di Catania, uno scrittore». Mi scruta: «Chi è?».
Se fossi in palestra con il mio personal trainer gli risponderei: stocazzo. Invece sono nella piazza dell’edificio Louise Weiss, al centro di un anello ovale dal diametro di 94 metri circondato da mura di 72 metri di altezza. Rispondo: «Ottavio Cappellani». Gli occhi di Sciuto si illuminano, mi tira un colpo sul petto con una mano e ride: «Ma certo, siamo cresciuti insieme. Ho letto poco fa il suo reportage dalla spiaggia nudista dove lo chiamavano il Babbo Natale co'a minchia di fora. L’ha scritto per voi?». Ottavio è un uomo di cinquant’anni e passa, vive nella campagna catanese con sei gatti e quattro cani, scrive romanzi eccellenti (l'ultimo è finalista al premio Campiello), articoli per vari giornali (tra cui MOW) e sembra davvero Babbo Natale: corporatura robusta, guance rosse avvinazzate, voce profonda, barba e capelli bianchi, lunghi e spettinati, vita da contadino. Quando lo chiami ti informa che o sta pulendo la popò (dice proprio così, la popò, perché tra le altre cose è pure un nobile decaduto e quindi conserva un minimo di buone maniere) o sta cogliendo i pomodori. Ottavio, insomma, è un personaggio estremo, poco incline ai compromessi, spirito critico e selvaggio, non è facile andarci d'accordo. Racconto a Sciuto che io e Ottavio non ci siamo mai incontrati di persona ma che ci seguiamo a distanza e passiamo molto tempo al telefono. Sciuto abbandona una posa formale e quasi mi abbraccia. Se siamo entrambi amici di Ottavio, non possiamo che essere amici a nostra volta. Affinità elettive, proprietà transitiva. E mentre attraversiamo la piazza con i nostri accrediti al collo Riccardo mi racconta che quando pensa a lui pensa a una scena precisa, e cioè a quella volta che si presentò in una piazzetta di Catania su un scooter scassato, a petto e gambe nude, con mutande e cappellino di Babbo Natale (si vede che in effetti è un po' il suo riferimento), dicendo: «Signori, io vado a comprare un po’ di fumo». Ottavio, insomma, merita un reportage a parte.
Entriamo nel palazzo principale e Riccardo ci guida fino a un ascensore dai vetri trasparenti. Salendo due piani mi guardo intorno: tappeti, scale, scale mobili, parquet ovunque, pure sui muri, architettura d’avanguardia, i piani sottostanti hanno un pavimento di rocce levigate che ricorda il dorso dei rettili e da cui partono delle piante che arrivano fino al soffitto. Lungo il corridoio, verso la sala dedicata alle interviste, mi dice: «Qui il primo problema è proprio l'informazione, la comunicazione». Penso a Gaza, penso all’Ucraina, penso ai Paesi in rischio default e mi viene in mente Johnny Stecchino: il problema della Sicilia è il traffico.
«In che senso la comunicazione?» chiede Gabri.
«Nel senso che non passa, non è sexy, non è figo parlare delle cose che succedono qui dentro, l’Europa fa partire molte direttive, soprattutto per quanto riguarda l’agricoltura e la pesca, quote latte, quote tonno e altre cose così. E non è un problema di soldi, l’Europa te li dà, ma devi motivare le ragioni, definire le tempistiche, chi li prende e come li spende. Gli altri Paesi sono molto snelli, in Italia abbiamo tanti punti di rottura: gli uffici comunali, le Province, il funzionario della regione o del ministero che bloccano tutto. Tanto al massimo prendiamo la multa che poi paghiamo noi, io, te e gli italiani. Per questo l’Europa è così incazzata con l’Italia». Riccardo ha quarantaquattro anni, parla cinque lingue, ha studiato Scienze Internazionali e Diplomatiche, ha vissuto in Brasile e ha lavorato per Medici Senza Frontiere in Bosnia. In Parlamento ha iniziato con uno stage all’ufficio della regione Sicilia, specializzandosi nei progetti legati all’energia rinnovabile, per poi essere assunto direttamente dal Parlamento europeo come policy advisor. Da cinque anni segue Dino Giarrusso, di cui era già amico di famiglia. Che arriva poco dopo.
4. Eccolo, Dino. Ha una giacca e una camicia a righe, è molto più magro di come me l’aspettavo, ha il volto scavato. Dino è un politico a cui non interessa “fare numero”, non è qui per i soldi o la carriera. È venuto a Strasburgo sperando di poter influire. Risultato? È entrato in Parlamento come deputato del Movimento Cinque Stelle, ne è uscito come indipendente. Oggi mi racconta di essere particolarmente orgoglioso della mostra che ha curato sui giornalisti uccisi per mafia e ci porta subito a vederla. Si trova sullo stesso piano, solo in un’altra ala dell’edificio. La mostra è allestita su dei pannelli auto portanti molto semplici, contenenti ognuno la stampa di una fotografia e un breve testo descrittivo. Da Giuseppe Spampinato a Peppino Impastato, da Mario Francese a Pippo Fava, da Mauro Rostagno, che aveva scoperto le attività dell’associazione segreta Gladio in Sicilia, fino a Maria Grazia Cutuli, uccisa in Afghanistan nel 2001 da una mafia ben più complessa e ramificata di quella siciliana. Osservo le foto e mi chiedo: quanto le persone che sono qui al Parlamento possono veramente intervenire per migliorare le questioni che riguardano la libertà di stampa e la lotta alla criminalità organizzata?
A un certo punto si fermano, mi afferrano un braccio e dicono: «Guardala». Chi? «Eva Kaili, è la più figa di tutte»
5. Ho bisogno di un caffè come si deve e Dino mi segnala un posto a Strasburgo dove esaudire il mio desiderio: il bar di un avellinese. «Ci dobbiamo andare in auto però, che oggi è un'auto blu, perché di solito vengo qui con la mia ma stavolta per motivi familiari non potevo» aggiunge. Ora, non so se a voi sia mai capitato, ma io l’esperienza di andare a prendere un caffè in auto blu non l’avevo mai vissuta. Ha il sapore del privilegio. Scendiamo nel garage e la vista che mi appare davanti è distopica: un enorme parcheggio sotterraneo pieno di auto blu. Un autista ci viene incontro e ci fa salire su una Skoda Envaq full electric.
Dino parte dalle nozioni base: «La prima cosa da sapere è che il Parlamento europeo non ha potere legislativo. Intendo che quando il Parlamento italiano vota una legge e il Presidente della Repubblica la firma, quella legge è legge. Qui no, qui tu voti risoluzioni, mozioni, regolamenti che devono poi essere approvati dal Consiglio europeo, l’insieme dei principali ministri dei singoli Paesi, e dalla Commissione, che è il governo. E il Parlamento non nomina nemmeno la Commissione, viene indicata dal Consiglio, il Parlamento può solo approvare. Poi, a loro volta, gli stati membri possono interpretare i regolamenti, farli applicare o meno». Non so se vi è chiaro: ciò che Dino Giarrusso mi ha spiegato è che molto del lavoro fatto a Strasburgo è inutile. Non l’ha detto in questo modo, ma di fatto questo significa. E aggiunge un caso concreto: «Ero riuscito a ottenere l’inserimento della canapa negli standard market, ovvero tra quei prodotti che un giorno potrebbero essere certificati dop o docg come l’olio extravergine d’oliva, i pomodori pachino o i limoni di Amalfi. La mia proposta era passata poi il Consiglio l’ha bocciata. Fine. Ma, se il Consiglio l’avesse approvata, poteva fermarla la Commissione». Quindi ecco un’altra domanda: il ruolo del parlamentare europeo è quasi solo simbolico? Un simbolo che costa carissimo a tutti.
6. Arriviamo al bar, si chiama Nuovo Caffè Milano. Dino continua: «Il parlamentare europeo fondamentalmente è pagato per la presenza: il rito più importante è quello della firma perché ogni firma nel registro è una diaria di 350 euro. Come mai Berlusconi, Calenda, Salvini, quando sono stati eletti, non venivano? Perché non gliene fregava niente dello stipendio. Salvini, quando era eurodeputato, si presentava solo per votare, perché se non voti ti tolgono anche lo stipendio base. E poi attenzione: a Strasburgo il registro è appena prima dell’emiciclo, invece a Bruxelles è in un ufficio a parte dove molti vanno a firmare e poi se ne tornano a casa». Sì, la situazione sta diventando sempre peggio, lo so.
«Io poi sono un indipendente e gli indipendenti non sono iscritti a nessun gruppo». Per gruppi s’intende il Partito Popolare europeo o Renew Europe, di cui fanno parte le forze politiche di centro, oppure i Conservatori, l’insieme dei partiti di destra, la cui leader è Giorgia Meloni, ma a destra della destra c’è un altro gruppo di cui fa parte la Lega (Identità e democrazia), mentre a sinistra ci sono i Verdi (che al contrario dell’Italia pesano eccome), i Socialisti democratici e The Left. «Non facendo parte di alcun gruppo non esisti, non incidi» chiosa Dino. E non c’è niente da fare: o nasci politico o, se politico ci diventi, fai fatica ad accettare che il tuo ruolo, in realtà, è di rappresentanza. I giochi veri si fanno da altre parti. «Avrei potuto vendermi facilmente, dare adito agli ami che mi sono stati lanciati da lobbisti e affaristi. Il tentativo di comprare il tuo voto nasce sempre da una battuta, sta a te coglierla e far capire se sei predisposto. Ma il mio percorso è tutt’altro». Dino si è laureato a Siena con una tesi sulla personalizzazione della comunicazione politica avviata da Berlusconi. Poi, però, è passato a fare l’aiuto regista e lo sceneggiatore, ha lavorato anche con Ettore Scola. Finché nel 2015 ha smesso, in quel periodo su Facebook parlava spesso male del Partito Democratico e molti autori e registi gli confessarono che stava rompendo troppo le balle con le sue dichiarazioni sui social. Proprio il giorno che ha ricevuto l’ennesimo no a un lavoro, ha incontrato un amico che lavorava a Le Iene e lo ha messo in contatto con la redazione. A Le Iene Dino è rimasto quattro anni. «Nel frattempo il Movimento 5 Stelle era cresciuto, mi ero iscritto al blog e appena c’è stata l’opportunità di candidarsi l’ho colta. Anche se oramai ero diventato uno degli inviati più conosciuti, pensa che pazzo. Alle elezioni nazionali, dove i candidati sono decisi dalle liste, sono rimasto fuori. Invece per il parlamento europeo, dove c’è il sistema delle preferenze, 120.000 persone hanno scritto Giarrusso». Eppure con il M5S è finita. «Alcune cose successe in Sicilia non mi sono piaciute, scelte di coordinatori che poi sono andati in Forza Italia, atteggiamenti simili a quelli delle altre forze politiche, giochi di potere. Il sistema fagocita tutto e io non ci sono stato».
7. Tornati in Parlamento, Dino raggiunge la sala delle interviste e partecipa a una foto di gruppo con altri parlamentari per Gaza. A colpirmi è un signore con capelli e barba lunghi e bianchi come Ottavio Cappellani ma basso, magro e con la maglietta del Toro. Dietro di me vedo Riccardo e gli chiedo chi sia. Se Riccardo fosse il mio personal trainer mi risponderebbe: stocazzo. Invece mi dice: «Mick Wallace. Un comunista irlandese. Personaggio grandioso. Spesso fa gli interventi con la t-shirt del Torino e lo sponsor Beretta in bella vista, perché qui uno può venire vestito come vuole, non c’è alcun dresscode». Improvvisamente i vari deputati si mettono in fila: eccolo, il momento della firma. Ci sono deputati che si salutano e si danno il cinque – «Grazie per il tuo voto, abbiamo salvato le caldaie» dicono, probabilmente alludono a qualche norma fatta passare per chissà quale risparmio energetico. In effetti qui ogni lobby cerca di difendere (o di accrescere) i propri poteri.
Con Riccardo c’è Massimo, un altro assistente che, notato il mio entusiasmo per Mick Wallace, mi parla di Magid Magid (si chiama così), sindaco di Sheffield, anche lui ex parlamentare europeo di origini somale. «Avresti dovuto vederlo: di colore, calamaro, veniva qui con i pantaloncini corti, magliettina bianca, cappellino giallo». Non sono sicuro di aver capito bene e gli chiedo conferma: «Calamaro?». «Calamaro, sì. È un termine noto dalle nostre parti». Anche Massimo è di Catania. Ha gli occhiali tondi, la barba appena fatta, il fisico bello in carne. «Ma perché proprio calamaro?». Inizia a muovere entrambe le braccia come se stesse ballando la lambada: «Eh, è pentacolare, si muove un po’ di qua, un po’ di là». Ok. Riccardo e Massimo ci scortano nella loggia da cui assistere ai lavori parlamentari. Entriamo ed ecco le tribune dove gli ospiti e i giornalisti possono seguire le votazioni. Ma sto per scoprire ben altro. Le votazioni sono un trip.
Mi ritrovo davanti una distesa di moquette beige, con degli scranni blu tutti occupati dai deputati. Sopra di loro, in delle specie di bolle di vetro, ci sono i traduttori, in fondo alla sala tutte le bandiere dei 27 Paesi della UE e, al centro, il simbolo dell’Europa. I deputati infilano le mani in un pertugio del cruscotto piazzato sul banco davanti a loro e votano qualsiasi norma a una velocità inconcepibile: sui trasporti aerei, i bus turistici, la sicurezza dei trasporti. Pare una roulette. O un trip, appunto. Dall’altoparlante una voce, in inglese, scandisce a macchinetta e in sequenza:
«Who is favour?»
«Vote is closed. Approved».
Mi infilo le cuffie con la traduzione. La voce è monocorde: «Accolto: 175 favorevoli. Contrari, astensione».
«183 favorevoli. «Verifichiamo. Verifica elettronica. Votazione conclusa».
«Accolto: 199 favorevoli. Verifica elettronica sui 199. Votazione chiusa».
La voce del traduttore pare gasarsi per un attimo: «208, favorevole». Poi torna senza emozione: «Contrari, astensioni. Cortesemente alzate la mano quando volete. 210 favorevoli. Contrari, astensioni. 212 favorevole. Verifica. Votazione chiusa». Improvvisamente la voce del traduttore cambia. Cerco di individuare gli italiani al di là dei vetri, dall’altra parte della sala. Vorrei conoscerli. Abbracciarli. Vorrei chiedere a ognuno di loro se sono consapevoli che saranno i primi a perdere il posto di lavoro, sostituiti dall’intelligenza artificiale, che poi piano sostituirà tutto questo, pure i politici. La voce del traduttore diventa una nenia e sto per addormentarmi quando sento: «Seduta chiusa, buon pomeriggio a tutti».
Andare a prendere un caffè in auto blu ha il sapore del privilegio
8. Usciamo dalla loggia e ritroviamo Riccardo e Massimo. Scendiamo verso la mensa al piano meno uno. A un certo punto si fermano, mi afferrano un braccio e dicono: «Guardala». «Chi?». «Eva Kaili, è la più figa di tutte». Eva Kaili è la deputata coinvolta nel caso delle presunte tangenti del Qatar Gate. È seduta a un tavolino con una collega. Bionda, elegante, sa di lusso e profumo mi dicono. Chiedo a Gabri di farle delle foto da lontano, ma in questa area è vietato: non si può.
In mensa è un delirio: fila per la frutta, fila per il pane, fila per la carne, per i primi, per il menu con paella, per le zuppe. Fila per ogni cosa. Acustica pessima, traffico di vassoi, posti a sedere tutti occupati, trovarne tre vicini è un’impresa. Aspettiamo Dino e ci sediamo con lui. Gabri e Dino hanno davanti uno stinco con patate, io un menu vegetariano. Ne approfitto per fare qualche domanda a Giarrusso. C’è la possibilità, per l’Europa, di influire sui conflitti in corso in Ucraina e in Palestina? «È una questione di rapporti economico-politici, gli Stati Uniti sono e saranno sempre sopra di noi. Sanzionare Israele, poi, è impossibile: l’Europa ne è alleata, non potrà mai fare granché». C’è qualche speranza che la situazione cambi con queste elezioni? «Al di là dei risultati è tutto molto confuso perché, per esempio, in Europa, Viktor Orbán, palesemente di destra, è all’interno del Partito Popolare ma vorrebbe andare nei Conservatori, mentre il PPE vorrebbe accogliere la Meloni. Sono tutti giochi politici e, come vedi, alla fine siamo tutti qui che mangiamo». Ammetto che la metafora è perfetta. «La questione è poco ideologica e molto pratica: destra o sinistra, chi ci sarà avrà la forza di alzare i dazi per i prodotti cinesi? La Cina ci rompe il culo, se non metti dei tassi o dei limiti di nuovo, tutte le moto e le auto in Europa saranno solo e soltanto cinesi». Ergo: sono i poteri forti che dicono ai parlamentari come muoversi. Banale ma pur sempre una verità.
9. Nella pausa pomeridiana, Dino va nel suo ufficio per preparare il discorso che terrà nella sala plenaria alle 18. Lo seguiamo e, uscendo dalla mensa, assistiamo ad avversari sempre pronti a scannarsi davanti alle telecamere che parlottano tranquillamente con le mani in tasca e la pancia gonfia. La definizione di politica. L’ufficio di Dino è in un altro palazzo, così attraversiamo un ponte interamente coperto da vetrate da cui si vede il fiume Ill che passa per Strasburgo. Le rive sono coperte di ciliegi in fiore. C’è qualcosa che non mi torna. Forse ho un mancamento, un principio di infarto, non lo so. Sento i piedi muoversi, i vetri tremare. Forse è un terremoto.
«Lo senti?» chiede Dino.
«Cosa hai detto?» chiede Gabri.
«Questo ponte si muove con il vento, è stato fatto con un materiale che permette le oscillazioni, solo che, se non lo sai, pensi che stia per crollare».
Ok, ho capito. Passiamo davanti all’ala Winston Churchill, alla sala Margaret Thatcher, tutti nomi che risuonano nella storia e che sono in contrasto con le facce da burocrati che vedo passeggiare qui intorno a me; non proprio le facce di chi sarebbe pronto a qualsiasi cosa pur di difendere la propria Patria. L’ufficio di Dino è piccolo, spoglio, ha il tavolo ricolmo di buste, bottiglie d’acqua, bustine di Fisherman alla menta, centinaia di scontrini. «Li conservo per documentare le mie spese. Certo, se fossi più ordinato non sarebbe male» spiega.
È il momento di parlare dello stipendio. Mi siedo.«Quello base è 7.400 euro al mese. Poi hai 4.500 euro per le spese di attività politiche locali, io per esempio ho un ufficio in affitto a Catania. Ma la vita del parlamentare è dispendiosa, mangi sempre in aereo dove un panino costa 10 euro. Almeno 4-5.000 euro al mese sai che ti partono, anche perché i viaggi sono pagati solo per me, se mio figlio e mia moglie vogliono venirmi a trovare il costo è a carico mio». Però non rientrano in questo calcolo le diarie, le famose 350 euro a presenza. Facendo un veloce conto, i più presenti possono arrivare anche a 15.000 euro al mese. Dino conferma. «Una volta era peggio, per i viaggi ti rimborsavano a forfait, fu beccato anche Giorgio Napolitano: pagava i voli pochissimo, otteneva rimborsi da 1.000 euro. Adesso ti rendono ciò che spendi e il venerdì puoi firmare solo se sei stato presente anche il giovedì, perché c’era chi firmava solo il venerdì e il lunedì per farsi il weekend con l’amante. Una volta alcuni riuscivano ad arrivare anche a 90.000 euro al mese. Comunque sì, è la vita perfetta: se uno volesse imboscarsi e non fare un cazzo, qui ci riuscirebbe senza alcun problema». Ma qualcosa si salva? O è solo davvero un lavoro simbolico pagato tantissimo? Dino sospira: «Qualcosa sì, noi abbiamo fermato il cosiddetto Mercosur, l'accordo con l’Uruguay, il Brasile, l’Argentina e il Paraguay. Se fosse passato, saremmo stati invasi dalla carne sudamericana e la nostra sarebbe finita. Ma sull’agricoltura e la pesca è un disastro: le quote latte, tonno, pesce spada sono penalizzanti. Dobbiamo acquistare dall’estero a costi di produzione molto più bassi, costringendo l’agricoltore italiano a sopravvivere di sussidi e a vendere sottocosto merce che deve sottostare a controlli molto più stringenti rispetto ai paesi esteri. È per questo che al supermercato troviamo l’olio a 3 euro proveniente dalla Tunisia o dal Marocco che si può vendere anche se il consumatore non sa se è stato fatto con i pesticidi o meno, se hanno smaltito correttamente le acque e così via». Da chi dipende? «Dalle lobby. L’Italia ha accettato accordi inaccettabili, ma noi abbiamo il cappio al collo del debito pubblico nei confronti della Banca centrale europea, quindi non possiamo alzare la voce più di tanto. Mi auguro che si comprenda che non si può liberalizzare tutto perché il rischio è che, tra poco, non ci siano nemmeno più i posti di lavoro per chi è qualificato. Servirà un reddito universale».
10. Assisto alla preparazione del discorso di Dino. Ha un solo minuto di tempo, quindi butta giù venti righe sulla guerra Israele Palestina e poi lo legge valutando i tempi. È leggermente più lungo. Lo taglia. Lo recita un’altra volta ed è perfetto. Sta per modificarlo ancora quando gli arriva un messaggio sul cellulare e lui si blocca: c'è un allarme bomba al Parlamento.
Micalizzi si sente a casa, finalmente qualcosa di eccitante. Ma né Dino, né Ricccardo e tantomeno Massimo paiono preoccupati. Dalle prime informazioni, sembra che sia stata abbandonata un’auto davanti a uno degli ingressi laterali. Dalle finestre si intravedono gli artificieri e i cani anti esplosivo, ma la nostra visuale è limitata. Prendiamo l’ascensore, magari un piano più sotto si vede meglio. Nell’ascensore, per un attimo, soltanto per un attimo, si spengono le luci.
Brivido. Riccardo e Massimo fischiettano My way. Le porte si aprono, e per arrivare proprio sopra al luogo del presunto attentato, passiamo davanti a un ufficio dove pare esserci una piccola festa.
«Quello è Rinaldi, lo conoscete?» urla Riccardo. Antonio Maria Rinaldi potrebbe essere un personaggio appena uscito da una commedia dei Vanzina. Leghista con un accento romano più romano di Totti, capelli bianchi, elegante, un sorriso rilassato, il ritratto del benessere insomma. Assomiglia a Max Tortora. Su uno dei tavoli della sua stanza c’è una forma di formaggio con un coltello da grana piantato dentro. Chiedo: «È grana o pecorino?». Qualcuno dice: «È grana!». Rinaldi alza la voce: «Ma che cazzo stai a di’, oh? Questo è pecorino romano da Grotaferata. Questo qua te fa veni’ er cazzo duro. È pieno di sale, ti s’alza la pressione e zaaac». Rinaldi, lentamente, fa il gesto dell’ombrello ma per mimare un oggetto che piano piano si addrizza. Sono estasiato: c’è un allarme bomba a pochi metri da noi, potrebbe essere un attacco ordito da Putin, un complotto arabo cinese, o chissà cosa e noi ce ne stiamo allegramente fottendo parlando dei poteri magici del pecorino romano di Grottaferrata. Ne taglio un pezzo e lo mangio, non si sa mai, magari Rinaldi ha ragione. «Ecco, bevi, bevi» mi dice versandomi dell’acqua in un bicchiere di carta. «Lo vuoi un caffè? Inzuppa er pecorino ner caffè, daje, senti che bono». Accetto. Rinaldi ha pure una macchinetta Nespresso. L’abbinamento pecorino salato-caffè è devastante: prosciuga la gola. «Senti che bono?». Annuisco: «È delizioso».
In Parlamento ci sono 36 deputati. 36. Gli altri posti sono vuoti. Qualcuno di loro prende la parola. Dice qualcosa in difesa di Gaza. Nessuno li ascolta. Io mi massaggio i piedi
11. L’allarme bomba era una farsa. Riccardo ci accompagna al bar del primo piano. Incrociamo una parlamentare col tubino bianco e un suo collega che entrano nello stesso bagno. Riccardo mi fa un segno di intesa e commenta: «Qui c'è anche quella sorta di clima da parentesi, no? Che sai che succede e poi rimane qua». Prima di lasciarci per andare a scrivere un comunicato mi presenta un lobbista. «Uno di quelli veri» specifica. Non lo descriverò, non ne dirò il nome, né la nazionalità, né in quale settore è coinvolto, altrimenti non potrei scrivere niente di tutto ciò che mi ha confidato. L’unica cosa che riporto è che mi ha parlato in francese. «Qui a volte mi sento come quando a sedici anni ero a Montpellier e su una panchina ho avvertito la solitudine. Ci sono dei momenti che quasi ti manca la mamma perché non sei mai in un luogo tuo, sei sempre in un non-luogo, ma se dovessi decidere se stare qui o a Bruxelles non avrei dubbi: qui. Strasburgo è una città che ha fatto la storia, non ha un po’ di storia, l’ha proprio fatta. Qua è nata la stampa e in questa regione, l’Alsazia, si sono decise due guerre mondiali». Poi mi espone una sua teoria che mi rivenderò vita natural durante. «Il grado di civiltà del posto in cui sono la misuro dai gusti di soda che trovo negli scaffali. Negli Stati Uniti, in Giappone, già venti anni fa, c’erano muri e muri di soda. A Bruxelles, ancora oggi, trovi la Coca-Cola, la Fanta e la Sprite. Punto. Bruxelles, poi, è la capitale della massoneria. Non te lo dirà mai nessuno, ma se guardi bene la facciata della sede del Parlamento Europeo vedrai un milione di croci. Un milione».
Non c'è bisogno che io faccia domande. Il lobbista conosce i giornalisti, sa cosa vogliamo sentirci dire in camera caritatis. E si fida di Riccardo che a sua volta gli ha detto di fidarsi di me. Merito di Babbo Natale co’ a minchia di fora. Così va il mondo. «Poi c'è la criminalità organizzata. Per dieci anni, seduto tra i banchi del Parlamento, c’è stato il fratello di uno dei presidenti dello Steaua Bucarest, pezzo grosso della mafia rumena e albanese. In quattro occasioni mi ha passato i risultati precisi, oh precisi, minutaggi dei gol e marcatori, di partite italiane. Serie A e serie B. Non so se mi spiego. Ho vinto migliaia di euro». Camminando in un corridoio, passiamo davanti a una parete dove ci sono tutti i Presidenti di Commissione. Li osservo uno a uno. Poi sposto lo sguardo sul lobbista. Da una parte ho la Storia come ce la raccontano, dall’altra la storia com’è. Una domanda però gliela faccio: cosa mi dici del Qatar Gate? Il Qatar Gate è stato un presunto sistema di tangenti per difendere gli interessi del Qatar. Il lobbista ride. «Il vero nome è Marocco Gate, ma tutti fingono di dimenticarselo. Io ho testimonianza diretta dal 2009 che il Marocco interviene sui deputati europei per vendere in Europa il suo olio e soprattutto il suo pesce. L’Unione Europea paga 49 milioni all’anno per far pescare nel mare del Marocco italiani, francesi, spagnoli. Vuoi ridere? Quel mare non è nemmeno marocchino, ma Sahrawi, West Sahara. Il Sahara occidentale è un territorio che sulla carta dovrebbe essere indipendente, è stato protettorato spagnolo e, in teoria, ora dovrebbe essere gestito dalle Nazioni Unite, il Marocco dovrebbe garantirne la sicurezza e basta, perché non hanno né uno Stato né un esercito. In realtà il Marocco ha occupato quella parte di mare e l’Europa tratta col re del Marocco, quando la trattativa spetterebbe alle Nazioni Unite. Tutti i deputati che favoriscono gli accordi hanno in regalo una casa in Marocco e altri, diciamo, benefit». Si ferma, prende fiato, continua: «Guarda il calcio, tu guarda sempre il calcio. Marocco e Qatar hanno legami fortissimi. E qual è la nazionale che nei mondiali del Qatar ha avuto un exploit? Il calcio ti spiega tutto: la Stella Rossa di Belgrado vince la Coppa dei Campioni l’anno dopo in cui cade il muro di Berlino. La Germania vince il Mondiale dopo la sua riunificazione. È tutto così scontato. Vogliamo parlare del tonno? Quello che trovi arriva tutto dal mare delle Seychelles, 109 isole tra l’Arabia Saudita e l’Africa. Se non paghi non controlli i pirati. I pirati del Sud Sudan o somali hanno conti svizzeri». Solo a me gira la testa?
12. Torna Riccardo e mi avverte che Dino sta entrando in plenaria. Raggiungo Gabri e insieme superiamo i controlli per tornare nella loggia. Nella riunione della mattina il Parlamento era pieno, adesso i deputati seduti li posso contare: 36. Hanno un minuto a testa per dire qualcosa che manco i presenti ascoltano dato che, mentre un parlamentare parla, gli altri guardano il telefono, chattano oppure chiacchierano tra loro. Dino Giarrusso è nell’estrema destra del Parlamento, nei posti dedicati ai non iscritti ai vari gruppi. Intorno a lui c’è il vuoto. I deputati che lo precedono si alzano dal proprio scranno, vanno al centro della sala, davanti a un palchetto, e leggono il proprio discorso. Quasi tutti dicono la propria sulla situazione a Gaza, urlano contro Israele. A me risuonano le parole di Dino in mensa: «L’Europa non penalizzerà mai Israele».
All'improvviso attira la mia attenzione lo spagnolo Urban Crespo, forse perché il nome mi ricorda Hernan Crespo, attaccante del Parma, della Lazio e dell’Inter, forse perché effettivamente ha una tecnica oratoria molto più efficace degli altri. Cosa dice? Lo dimentico un attimo dopo. Gli altri mi sforzo di ascoltarli, ma alla fine le loro parole diventa un suono piatto, inefficace. Da quanto ho camminato ho i piedi che mi fanno male. Mi tolgo le scarpe, mi guardo intorno, oltre a me e a Gabri c’è un’altra persona nella loggia ma non può vedermi, così mi tolgo anche i calzini e mi massaggio i piedi. Ciò che dicono i parlamentari presenti non arriva a me che sono in sala, figuriamoci se riesce a travalicare il Parlamento stesso, il Consiglio, la Commissione, fino a raggiungere l’Italia, per esempio. Finalmente tocca a Dino. Un minuto. Un minuto dove lancia accuse pesantissime contro l'indifferenza dell'Europa nei confronti dei morti civili palestinesi, un minuto dove attacca il governo israeliano con parole durissime; un minuto, però, buono solo per fare un reel su Instagram, non per altro: nessuno lo applaude, nessuno lo ha davvero ascoltato. Abbiamo finito per oggi, anche se il giorno successivo in realtà c'è solo una cosa da vedere. Memorabile.
«I deputati che favoriscono gli accordi per far pescare i marocchini nel Mediterraneo hanno in regalo una casa in Marocco...»
13. Per Dino è la sfilata dei trolley. Avviene ogni giovedì mattina. I deputati entrano in Parlamento, firmano la diaria e poi scivolano all’aeroporto trascinando il proprio trolley. È la scena finale, il k.o. definitivo. Penso ai bambini di Gaza e alle loro famiglie. Penso alle famiglie ucraine disperate, al buio sotto le bombe che, in qualche angolo del loro cervello, magari conservano ancora un briciolo di fiducia nell’Europa capace di far ragionare Putin. Non succederà. Mai.
Dopo aver passato questi giorni a Strasburgo so che è così. Non ho le prove, lo so e basta. Gabri e io ci mettiamo in macchina. Alla fine non ce l’ha fatta a cambiare aereo. Torniamo insieme. Nel viaggio una frase del lobbista mi torna spesso in mente. Un mantra. «Ho imparato una cosa da quando sono qua: il bene si fa in una maniera sola, il male invece si fa in tanti modi». Quanta verità.
Epilogo. Qualche giorno prima delle elezioni di settimana scorsa sto rientrando dopo una giornata di lavoro. Nella strada verso casa, zona porta Venezia a Milano, incontro tre gazebo: uno di Alleanza Verdi e sinistra, uno della Lega, uno di Terra pace e dignità, la lista di Michele Santoro. Davanti a quest’ultimo un signore mi offre un bigliettino con le istruzioni per votare un loro candidato: «Scrivi il suo nome, siamo gli unici che crediamo davvero nella pace!» Lo guardo, avrà settant’anni. Ammiro la voglia che ha di crederci ancora.
«Lei è mai stato a Strasburgo?» gli chiedo.
«No» risponde.
Rivedo il parlamentare leghista che mi dice come il pecorino romano ti faccia svegliare con il cazzo duro; rivedo il lobbista che si gioca le soffiate sul calcio scommesse; risento quel fiume di parole urlate dai deputati sulle tragedie di Gaza davanti a scranni vuoti e facce stanche.
Chiedo ancora al signore: «Ci crede davvero che possa servire a qualcosa un parlamentare europeo?».
«Certo».
Sorrido, prendo il bigliettino, lo ringrazio.
E lo saluto.
Hanno collaborato: Cinzia Giacumbo (art direction) Giulia Toninelli, Barbara Gozzi.