È l’anti influencer. Non fa reel, TikTok ok, su YouTube non è pervenuto. Eppure Fabrizio Biasin è il giornalista con il più alto engagement sui social. A dicembre dello scorso anno aveva quasi 3 milioni e mezzo di interactions. Selvaggia Lucarelli ne aveva 586mila. Sei Lucarelli per fare un Biasin. Ma anche sei Nicola Porro, sei Saviano, otto Andrea Scanzi. Scrive, twitta, al massimo mette una foto e poi riposta su Instagram quello che ha fatto. Parla di calcio, e questo aiuta, è vero. È la guida di un interismo dalla mentalità non più vittimista ma vincente. E in questo mondo di polemisti per professione, Biasin è la dimostrazione che si può diventare virali senza urlare o prendersela con qualcuno. Quando ci vediamo ha appena finito di parlare con Simone Inzaghi al telefono. Ha una t-shirt bianca, la faccia glabra, lo zainetto come uno studente diligente. E a pensarci bene forse lo è. Fabrizio Biasin studia, studia continuamente, ed è diligente, metodico: «È un difetto, perché diventa una malattia, ma io devo sapere sempre che cosa è successo. Pensa che per recuperare e leggere tutto vado a letto alle 4 del mattino e che poi, quando mi sveglio, dalle 8 alle 9, mentre mia moglie fa colazione e il gatto Frida si mette sopra di me, passo un’ora a letto per la rassegna stampa, guardo le prime pagine di tutti i quotidiani, capisco quali sono i trend, e piano piano approfondisco e mi preparo per la riunione delle 11». Già, perché nella vita reale Biasin è caporedattore dello sport nel quotidiano Libero.
Vidal mi ha dato del pagliaccio. Di recente un calciatore mi ha minacciato pesantemente
Il tuo modo di stare sui social è una strategia oppure qualcosa di naturale?
«Su Facebook scrivevo testi molto lunghi, tendenzialmente erano sempre dei racconti tragicomici su ciò che mi succedeva. Quando è arrivato Twitter capii che un giornalista non poteva non esserci. Inizialmente lo usavo solo per seguire le notizie, poi ho cominciato a scrivere, e la necessità di sintesi mi ha aiutato a migliorare il mio stile. Su Instagram mi sono posto la domanda; come lo uso, visto che mi vergogno a condividere le mie foto? E ho fatto una cosa assolutamente non convenzionale: postare quello che scrivo su X».
Monitori i tuoi numeri?
«Assolutamente no, me ne frego altamente».
Anche questo è da anti influencer.
«Proprio non so se una cosa funziona più di un'altra. Non ne ho idea, e non mi interessa: io faccio quello che mi piace e quello che mi sono dato come comandamento è dire sempre quello che penso, perché se comincio a vedere quale argomento ha tirato di più o di meno in qualche modo mi può condizionare».
Offese?
«Tutti i giorni almeno una dozzina di pelato di merda. Poi c'è pagliaccio, clown, ti investo, ammazzati. All’inizio ci rimanevo male, poi ho capito che quel mondo lì in realtà è come lo stadio, il calcio è goliardia. Ora ho imparato un trucco e quando ricevo le difese più pesanti rispondo: dottore, mi può dare l’indirizzo della pec? Chiedono subito scusa. E finisce lì. Perché poi, parliamoci chiaro, non faccio niente di così importante, io in casa ho l’esempio delle mie sorelle…».
Ovvero?
«Ho una sorella gemella che fa l'infermiera. Ha a che fare tutti i giorni con la morte, con la sofferenza. Devi avere la forza di mettere le mani nella tragedia; la leggerezza lì non esiste. L'altra mia sorella è una ricercatrice. Lavora al Sacco di Milano e loro sì che fanno dei lavori che sono veramente seri, impegnativi».
Per tanti miei colleghi la missione non è più informare ma far valere la propria idea
La passione per il calcio dove nasce?
«A Brunate, un paese nella montagna sopra Como, giocavo a calcio dieci ore al giorno nel campetto dell’oratorio, 40 bambini, 20 contro 20. Tornavo a casa distrutto, pieno di sangue, tagliato, sporco. Imparavi a stare in mezzo alla gente. Poi sono entrato nelle varie squadre, stare in uno spogliatoio è super formativo. Ho fatto anche l’allenatore un po' di anni».
Al tuo mestiere come arrivi?
«All’università studiavo chimica. Eravamo 15 in tutta la facoltà, Università dell’Insubria. Passavo la mia giornata in laboratorio, quando c'era la pausa, dopo tre ore di chimica organica, uscivo a fumare una sigaretta e dicevo: adesso parleremo di calcio, di figa. E invece no, con gli altri parlavi ancora di chimica organica. Facevo fatica a stare dietro a questi ritmi, preparavo gli esami in quattro mesi di studio serratissimo. Poi un giorno entra in aula un professore con la barba bianca e dice: “Ragazzi, mettetevi il cuore in pace, il mio esame dovrete rifarlo almeno sette volte”. Ho pensato: ok, me ne torno a casa».
E cosa hai fatto?
«Mi sono iscritto a scienze ambientali perché riconoscevano tutti i dieci esami che avevo già dato. Mi sono laureato in due anni e il giorno della laurea mia sorella grande mi ha detto che c’era un corso di giornalismo finanziato dalla regione Lombardia. È stata la svolta».
Come faceva tua sorella a sapere che volevi fare il giornalista?
«Leggeva le cose che scrivevo a casa, sapeva che era il mio sogno. Finito il corso mi metto a fare il giro delle redazioni. Libero era nato da poco e cercava giovani. Al terzo giorno di fila che mi presento in redazione la responsabile delle cronache di Milano mi dice: “Senti, vai in giro, se trovi una notizia te la faccio scrivere”. Camminando, vedo un rumeno al semaforo che chiedeva i soldi ed era senza gambe. Questo mi sembra una notizia, ho pensato nella mia ingenuità. Questo mi fa: “Dammi 10 euro e ti racconto la mia storia”. Una storia assurda. Mattia Feltri l’ha messa addirittura in prima pagina. Ma poi sono finito nella redazione dello sport perché ero bravo a calcetto».
Cioè?
«Andavo a giocare con i colleghi e il capo della sezione, Alessandro Dell’Orto, vedendo che sapevo farci, mi propose di scrivere di calcio».
L’approccio da chimico però ti è rimasto anche nel giornalismo. I tuoi testi seguono sempre un ragionamento preciso, tratti i fatti come se fossero delle sostanze che poi, messi insieme, portano a un risultato oggettivo.
«Nella mia misera esperienza universitaria la mia più grande soddisfazione è stato l'esame di sociologia».
Il calcio, gli spogliatoi, le società sono sistemi complessi con un insieme di ingredienti che a seconda di come li componi producono un risultato diverso.
«Pensa che l’altro giorno l’allenatore in seconda dell’Inter, Massimiliano Farris, mi ha detto: “Ricordarti che sei uno di noi”. Non intendeva solo che sono un interista, ma che sono un uomo di calcio, che sa davvero di calcio, che conosce e capisce le dinamiche di uno spogliatoio. Ti faccio un esempio».
Prego…
«I tifosi e i colleghi spesso si lamentano che vogliono più attaccanti in una squadra, per esempio, ma non considerano che ogni giorno nella partitella degli allenamenti giocano comunque 11 contro 11 e se ci sono 3 o 4 elementi che devono stare a bordo campo a palleggiare, questi qui odiano l’allenatore e possono creare tensioni nel sistema generale».
Qual è la cosa più importante nel calcio? «Nella vita. La gestione della sconfitta. È il senso di inadeguatezza che porta a essere i numeri uno»
È un problema essere palesemente tifoso interista?
«Non so se rifarei questa scelta, essermi dichiarato mi ha complicato la vita».
Gli interisti come me ti amano.
«E io loro. A me fanno impazzire quei tifosi che in questo momento stanno già pensando ai problemi futuri con la nuova proprietà, che magari non si verificheranno».
Smonti i luoghi comuni sull’Inter. Tipo, è stata costruita per vincere lo scudetto.
«È stata costruita per fare un percorso, per avere continuità. La dirigenza è partita anni fa, ha scelto gli uomini e i giocatori giusti per inserirsi in un gruppo, in un sistema complesso, appunto, che ha dei valori molto precisi: la serietà, il collettivo, l’umiltà, la voglia di vincere. Che poi sono quei valori presenti in tutte le squadre che riescono a ripetersi».
Per questo «sei uno di loro».
«Per tanti miei colleghi la missione non è più informare ma far valere la propria idea. Sono sempre dell’idea che sia sempre meglio dire una volta in più ho torto, piuttosto che dire sempre ho ragione. Invece mi sembra che il meccanismo del giornalismo in Italia in questo momento sia cercare di dire tutti i giorni ho ragione io, ho ragione io, ho ragione io».
La cosa strana è che anche tanti ex giocatori, che pure hanno vissuto per una vita in uno spogliatoio, per rientrare nelle logiche delle trasmissioni televisive e dello share cadono in questo errore. Chi è un ex calciatore, tra i commentatori attuali, chi ti ha deluso?
«Lele Adani è un bravissimo comunicatore. Potrebbe insegnare comunicazione. Secondo me non ha bisogno di esagerare, perché poi sennò diventa una cosa poco verosimile».
E chi è il migliore?
«A me piace tantissimo l’ex allenatore Andrea Stramaccioni, Massimo Ambrosini è bravo, pure Alessandro Matri, ma il mio preferito era Luca Vialli. Ecco, Vialli riassumeva tutto quello che secondo me deve essere un calciatore, e un calciatore dopo il ritiro».
Commentatore numero uno?
«Ci sono alcuni commentatori che tu li ascolti e dici: cavolo, questa cosa la volevo dire anch'io. Marco Bucciantini, per esempio».
Il giornalista più bravo?
«Impazzivo per Gianni Clerici, un passato da sportivo e una scrittura inarrivabile».
E chi è invece il giornalista sportivo che parla più a caso?
«Io ce l'avrei anche un nome, ma finisco di vivere, cioè, non posso farlo».
È di Sky?
«No, dai, non posso».
In un mondo dove Simone Inzaghi va ad allenare il Brasile, chi vorresti all’Inter? «Roberto De Zerbi»
Meglio bravo giornalista sconosciuto o pessimo giornalista famoso sui social?
«Se il tuo obiettivo sono solo le interazioni, significa che non sei un giornalista. Non sono le interazioni che fanno la differenza».
Tu non usi mai i tuoi social per rimandare a leggere il tuo pezzo.
«Mi imbarazza. Non mi va di dire alla gente di leggere a tutti i costi un pezzo perché l'ho fatto io».
Qual è la cosa più importante nel calcio?
«Nella vita. La gestione della sconfitta. Guarda Pep Guardiola, l’allenatore più forte al mondo con Carlo Ancelotti. Lui è uno a cui piace raccontarti l’errore, il perché di una cosa che non ha funzionato a dovere. Non è uno di quelli che si vantano dei successi, ma uno che si concentra sui difetti. Ed è questo il motivo per cui è riuscito ad arrivare alla semi-perfezione: perché vede l'imperfezione. Io sono convinto che lui si senta sempre inadatto. Però è proprio questo senso di inadeguatezza che lo porta poi a essere il numero uno in assoluto».
In un mondo dove Simone Inzaghi va ad allenare il Brasile, chi vorresti come allenatore dell’Inter?
«Sempre lui. lo apprezzo veramente tanto, mi piace proprio come persona».
Fai uno sforzo.
«Roberto De Zerbi. Adesso ha portato ad alti livelli il Brighton in Inghilterra, ma anni fa, io giovane cronista, lui mister a Sassuolo, gli chiedo: posso venire a fare un’intervista? Mi invita a stare un giorno da lui. Come collaboratori aveva anche un filosofo e un matematico. Niente era improvvisato. Ecco perché è e sarà tra i migliori».
Peggio milanista o juventino?
«Io ho il papà milanista, Mi ha portato a vedere lo scudetto di Arrigo Sacchi allo Stadio Sinigaglia di Como nel 1998 ma poi sono diventato interista perché lo era mia madre. Quindi dico juventino, quando il Milan va bene sono contento perché so che mio papà è felice».
L’amministratore delegato dell’Inter Giuseppe Marotta viene da te e ti dice: “Dimmi il nome di un giocatore e lo prendo”. Quale fai?
«Sempre considerando la chimica e che devono inserirsi in un sistema complesso ne cito due. Koopmeiners, centrocampista dell’Atalanta, e subito dietro Ferguson del Bologna».
Giochi al fantacalcio?
«Sì. Sono primo in due fantacalcio su due. Negli ultimi dieci anni ho collezionato cinque scudetti e due secondi posti».
Qual è la tua strategia all’asta del fantacalcio?
«La prima cosa è un grande portiere. Poi un grande capitano, Danilo D'Ambrosio, sempre mio. Poi difensori che facciano gol».
Scaramanzie quando guardi le partite?
«Evito l'ascensore a San Siro, salgo sempre a piedi, e il caffè a fine primo tempo: obbligatorio».
Se ti dovesse arrivare una proposta dall'Inter?
«Dubito arriverà mai perché non penso che abbiano bisogno di me. Dovessero mai dirmelo, sarebbe interessante».
L' ultima volta che hai pianto per il calcio?
«Al ritorno della semifinale di Champions dell’anno scorso, perché quando vedi una squadra, la tua, che viene da un momento di difficoltà incredibile e riesce ad arrivare alla finale vincendo il derby, è qualcosa di meraviglioso».
Il momento più doloroso della tua storia da interista?
«Il famoso 0-6, ero in curva, sono restato fino alla fine. Una sofferenza devastante. Anche il 5 maggio con lo scudetto perso all’ultima giornata è stato pesante. Poi, quando si è fatto male Ronaldo».
La partita delle partite?
«Ce ne sono un po’ che mi porto nel cuore. Nell’anno del triplete mi ricordo il derby di agosto. Tornavo da una vacanza in Puglia, tra l'altro bellissima perché mi ero innamorato follemente di una ragazza. Quindi ero abbronzato, felice: ho capito che la stagione stava iniziando in una certa maniera».
Hai mai litigato con qualche giocatore?
«Sì. Perché se tu parli bene dei giocatori, ce ne fosse mai uno che alza il telefono per dirti grazie».
Invece se ne parli male…
«Vidal mi ha dato del pagliaccio. Di recente un calciatore mi ha minacciato pesantemente su WhatsApp: stai attento a quello che fai. Non posso fare il nome».
Cosa gli hai risposto?
«Ti rendi conto di quello che hai detto? Poi mi sono preso la mia mezz'ora, sono andato a recuperare tutte le cose che avevo detto di lui e su dieci, otto erano complimenti. Gliel'ho fatto notare: queste però non le hai guardate. E lui ha glissato».
Ultima cosa. Facciamo la formazione dell’Inter di Fabrizio Biasin, scegliendo tra i giocatori che hanno segnato la nostra generazione. 4-3-3. In porta Zenga o Julio Cesar?
«Zenga. Mi chiama e mi parla di calcio».
Difensore di destra. Bergomi, Zanetti o Maicon?
«Dico Maicon, è il primo calciatore moderno. Un attaccante in difesa».
Centrali: Ferri, Samuel, Materazzi, Lucio. Due tra questi.
«Samuel, uno che con il sole tramontato spaventa. E Riccardo Ferri».
A sinistra: Roberto Carlos, Brehme o Di Marco?
«Direi Brehme, ma recupero Zanetti, il capitano dei capitani, e lo metto qui».
Centrale di centrocampo: Brozovic, Chalanoglu o Thiago Motta?
«Brozovic, un illuminato, uno di quelli che più si alza la tensione della partita, più abbassa il suo battito cardiaco. È andato in Arabia perché sapevano che lui soffre troppo a non giocare, si sarebbe incazzato e sarebbe stato un problema per tutti».
Centrocampista di destra: Simeone, Barella, Berti.
«Barella, l'ho visto a Como, aveva 18 anni, era in prestito dal Cagliari. In mezzo a un gruppo di scappati di casa capivi che era un fenomeno».
A sinistra: Matthäus o Mkhitaryan?
«Matthäus, ma Mkhitaryan è diventato davvero importante».
Tre attaccanti: da destra, Thuram o Eto’o?
«Eto’o, perché è stato il più grande affare della storia dell’Inter».
A sinistra: Rumenigge o Baggio?
«Baggio, assolutamente».
Centrale, e qui sono cazzi: Ronaldo, Milito, Ibrahimovic, Lautaro o Vieri?
«Ronaldo, quando c’era lui un abbonato dell'Inter andava allo stadio non per vincere, ma per vedere qualcosa di incredibile».
Allenatore?
«Inzaghi. Ha un'idea e una gestione del gruppo che mi piace molto. E fa di quelle cose che a me veramente fanno impressione: Bastoni attaccante aggiunto, Di Marco che diventa punta a destra… Però farei anche la panchina».
Vai.
«Julio Cesar in porta. MIkhitaryan, Luisito Suarez. Era un grande, una bella persona. Hernan Crespo. E poi Alvaro Recoba, il più grande talento sprecato nella storia del calcio, un sinistro divino».
Cos’è il calcio per te?
«La mia più grande passione. Mi accompagna tutti i giorni, tutte le ore della mia vita. Da questo punto di vista, vorrei riuscire a metterlo un po' da parte, ma il calcio c'è in tutto quello che faccio, dal mattino alla sera, e io sono contento di questa cosa perché c'è gente che, ripeto, fa cose molto più serie. E tutto sommato me la godo».