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La Bella Vita e i conflitti sociali. La famiglia, la fragilità e la paura di diventare come tanti rapper italiani tutta posa e niente sostanza. Intervista dritta, chiara, onesta ad Artie 5ive. Uno che non vuole cedere al culto del superficiale

  • di Moreno Pisto Moreno Pisto

  • Foto di Max&Douglas

9 aprile 2025

  1. Cover Story

La Bella Vita e i conflitti sociali. La famiglia, la fragilità e la paura di diventare come tanti rapper italiani tutta posa e niente sostanza. Intervista dritta, chiara, onesta ad Artie 5ive. Uno che non vuole cedere al culto del superficiale

9 aprile 2025

Alert. Non fate leggere questa intervista a Salvini. La prima canna a 13 anni, la pistola a 15. E poi la nuova scena rap più grezza e dura di quella precedente. Le bottiglie di Hennessy. Storia di Artie 5ive. Fuori ora con il nuovo album La Bella Vita (primo su Spotify e con tutti i singoli nella top 100, tutti pezzoni, due su tutti). Che arriva dalla Bicocca, periferia di Milano, una di quelle più dure. Che scrive per restare vero. E per questo non ha paura di toccare certi temi. Credete sia normale con un artista parlare di fumo, ferri nascosti in casa e risse nei locali? No, non lo è. Ma noi lo abbiamo fatto

Foto di Max&Douglas

di Moreno Pisto Moreno Pisto

Artie aspira, trattiene il fumo, lo soffia via a piccoli anelli. Il flash scatta, scatta, scatta ancora. Il fumo circonda la sua faccia, Artie digrigna i denti, tossisce appena. Per fare le foto di questo servizio si sta fumando una canna in pochi secondi. Mi preoccupo per lui.
   Vuoi che facciamo una pausa?
«No, ci sono abituato, vai tranquillo».

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«Dalle mie parti la musica ha ancora quel bisogno di dire, di farsi sentire»

Il discorso è semplice: in Italia c’è una nuova scena musicale che sta spaccando, formata da rapper e producer che non hanno niente a che vedere con il rap italiano mainstream, nonostante quelli che benpensano non l’abbiano ancora capito. È un nuovo ciclo, molto più grezzo, duro, perché fatto da poco più di ventenni che hanno vissuto sulla loro adolescenza i conflitti e i disagi sociali acutizzati nelle strade in questi ultimi dieci anni: l'esplosione delle baby gang e della micro criminalità, l’emancipazione femminile scambiata per Onlyf*ns, il denaro come unico metro di giudizio per valutare sé stessi. Incontriamo Artie 5ive fuori Milano, in una zona di capannoni, tra aziende di trasporto, logistica e auto officine. Due piani di sale riunioni e studi di registrazione. La stanza principale è un mezzo campo da basket pieno di palloni sgonfi e una moto da cross parcheggiata in fondo alla stanza. Artie arriva, sorride, uno così ovunque vai lo noti. È alto 1,90, ha 25 anni, sua madre arriva dalla Sierra Leone, il suo vero nome è Ivan Arturo Barioli. Jeans larghi, morbidi, Timberland, canotta e camicia a quadri aperta. Andiamo su, ci mettiamo comodi in una sala. E partiamo da dove è partito lui, da Bicocca. Il suo quartiere. Diciamola tutta: nonostante una recente riqualificazione, Bicocca è il tipico fallimento dell’urbanizzazione delle periferie, la modernità nella sua forma più lobotomizzata. È un ammasso di enormi cubi o rettangoli di cemento che ospitano uffici su uffici, di mega palazzoni con appartamenti appiccicati uno all’altro, di centri commerciali con 20 sale da cinema dentro e poi, tutto intorno, chilometri di asfalto. A salvarla, ci sono l’università e l’Hangar Pirelli. Ma chi la notte resta in Bicocca di base vive in un quartiere fantasma, un dormitorio. Solita storia: prima creano il disagio dove precipitare, poi se ci finisci dentro la colpa è solo tua. Artie, di caderci, ha rischiato.
Bicocca dove? 
«Una delle vie principali. Io sono del 2000 e nel 2005-2006, c’è stata una grande retata. Da allora la situazione è CAMBIATA, ma è sempre divisa in due: una parte urbanizzata e una parte che è rimasta quella di prima. Io ho cominciato a capire dov’ero a 13-14 anni».
Dammi un'immagine della tua infanzia.
«Ho sempre cercato di essere felice, di fare paragoni con gli altri bambini, ma non ci riuscivo mai. La mia famiglia era diversa: mia madre è nera, mio padre bianco, e io non capivo bene queste differenze. Il razzismo in Italia lo senti, soprattutto da piccolo. I bambini non ti dicono "coglione", ti dicono "negro di merda"».
Tua madre e tuo padre dove si sono conosciuti?
«Mio padre è di Certosa di Pavia, lavorava con le ONG, MSF e simili. Va in Sierra Leone ed eccomi qui». 

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«Ho iniziato a fumare a 13 anni. E quasi subito ho iniziato anche a vendere un po’ per farmi i primi soldi per la musica. Fumo ancora. Fumo tanto»

Attenzione. Se intervisti un cantante devi stare attento a toccare certi temi. Né gli artisti né, soprattutto, gli uffici stampa vogliono che si parli di droga, di storie di sesso o di altri argomenti scivolosi. Però, mi dico, se sei uno che nelle sue canzoni parla spesso di questi temi non puoi sottrarti. Altrimenti sei un personaggio, non sei un vero rapper. Con Artie vado giù diretto. Non si scompone, affronta ogni risposta. Sincero.

Quando hai cominciato a fumare? 
«A 13 anni. Stavo sempre in giro, uscivo con un amico più grande che mi ha fatto fare i primi tiri. E quasi subito ho iniziato anche a vendere un po’ per farmi i primi soldi per la musica».
Rappi: «La mia casa è piena di sneaker, piena di droga».
«Fumo ancora. Fumo tanto. E di sneakers ho uno sgabuzzino pieno, fino al soffitto».
Quanto fumi?
«Dipende: cerco di regolarmi. Ci sono giorni in cui non fumo e mi sento fiero, tipo: “Oggi ho spaccato”».
E l’alcol?
«Mi piace bere, fare serata. Ho scoperto il cognac un giorno per caso a casa di mio padre. Una bottiglia di Henessy che secondo me lui non sapeva nemmeno di avere, perché l’ho fatta sparire ma lui non mi ha mai detto niente. L’ho presa, sono andato al bosco verticale e l’ho bevuto con la mia compagnia, eravamo 20 o 30 persone. Da lì in poi è diventato il mio drink preferito quando esco, se vado a ballare bevo solo quello. E poi ho scoperto che Hennessy ha tutta una storia legata ai rapper neri e allo schiavismo. Quel brand era uno dei pochi che non trattava schiavi, e che già dagli anni 50 fa campagne pubblicitarie mettendo al centro i neri. Così è diventata una cosa simbolica per la cultura black».
Nei tuoi testi parli anche di crack-coca…
«Però quella non la fumo, quella manda il cervello a puttane».
Parli anche di armi.
«La prima pistola che ho visto e preso in mano era quella di un amico, avevo 15 anni. Anche se hanno il loro fascino. Ora il mio interesse è più sportivo, tipo poligoni di tiro.».
Ultima rissa? 
«Due o tre mesi fa, in un locale. Ma è durata poco, dai. Non cerco guai, ma odio quando la gente manca di rispetto senza motivo».
Paura di finire nei casini?
«Sì, ho paura di mandare tutto all’aria. Certo, potrei scegliere una vita più tranquilla, ma il rischio di finire in carcere è una scelta, a meno che non ci finisci perché ti incastrano».

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«Certo, potrei scegliere una vita più tranquilla, ma il rischio di finire in carcere è una scelta, a meno che non ci finisci perché ti incastrano»

Ha la risata chiassosa e baritona, Artie. Ciò che ha vissuto, ciò che vive, lo riversa nelle sue barre. Buttate giù così, nude e grezze. Ed è questo che mi piace di lui. È selvaggio, non è impostato. 
Billboard ha scritto che fai "ballare i culi".
«Io adoro ballare, mi piace l’energia che mi dà. A me piace far muovere la gente, far ballare i culi è una necessità naturale. L’essere umano ha bisogno di muoversi, scaricare l’energia».
Prima parlavo con i tuoi amici/manager della vostra scena musicale. Sembra che ci sia una nuova generazione di artisti più cattiva, più pura, più vicina alle radici del rap.
«La mia generazione si è sentita abbandonata dai rapper che ci hanno preceduto, quelli che erano i nostri idoli. Quando ero ragazzino, i rapper si vergognavano di fare musica per i giovani e a me, da giovane, questa cosa rimaneva in testa. È come quando un genitore ti tratta male. Abbiamo preso i lati negativi, come l’aggressività, ma abbiamo sviluppato i nostri lati positivi, che fanno parte dell'identità di ciascuno di noi». 
Tra voi nuovi rapper e produttori si percepisce tanta unità: tu, Sadturs, Kid, Niky, Papa V, Capo Plaza, Tony Boy, Astro, Nerissima serpe. È reale? Vi stimate davvero?
«Sì, quando abbiamo iniziato eravamo sempre insieme, lavoravamo e facevamo live insieme. Poi crescendo ognuno ha preso strade diverse. Però siamo rimasti in contatto. Quando c’è da lavorare, ci si ritrova».
Chi sono i più talentuosi adesso?
«Della mia scena? Per esempio Tony Boy, Niki Savage, Astro e altri ancora. Ognuno di noi ha una particolarità, è come se fossimo supereroi con poteri diversi. Non potrei mai scrivere come Kid Yugi io, o avere la stessa sensibilità di Tony su certi argomenti».
Però la cosa che vi unisce artisticamente è che ognuno di voi fa percepire spessore, ricerca. Molte vostre canzoni sono anti mainstream: cattive, pesanti, sociali, ora che le canzoni sociali sono praticamente vietate, altrimenti non passi in radio, non vai a Sanremo, l’algoritmo non ti premia. 
«Ma ora c’è più consapevolezza e io non potrei scrivere ciò che non vivo: quello che metto nei versi è ciò che butto fuori».
Senti, ti faccio qualche nome e mi dici quello che ti viene in mente. Giudizio, aggettivo, quello che vuoi. Fedez?
«Magnaccio. No, ahah volevo dire magnate. Uno che ha costruito tanto, che è ricco».
Ma anche magnaccia ci sta dai, nell’ultimo periodo è bello attivo. Tony Effe?
«A questo punto allora magnaccio pure lui ahaha».
Kid Yugi?
«Amico».
Hai lanciato qualche frecciata alla scena rap italiana. C’è una tua frase che mi sono segnato: «I rapper italiani sono tutti subumani».
«Sì, lo penso. Soprattutto molti della vecchia scena rap, a risentirla ora è un po’ roba da ragazzi, non so come dire. Ogni tanto mi capita di ascoltare qualche pezzo e mi chiedo: “Ok, ma che stavate provando a fare?”. Alcuni sono alla ricerca del passaggio in radio. Noi siamo usciti da contesti più grezzi, più duri». 

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«La mia generazione si è sentita abbandonata dai rapper che ci hanno preceduto. Quando ero ragazzino i rapper si vergognavano di fare musica per i giovani e a me, da giovane, questa cosa rimaneva in testa»

Chi sono i tuoi riferimenti musicali oggi?
«Ascolto molto i PNL, due fratelli francesi: fanno trap con suoni psichedelici e testi che ti fanno sognare. Poi Burna Boy: è incredibile, ha spaccato a livello mondiale. E Tyler, The Creator: ha vinto pure un Grammy. Ultimamente ascolto anche Kodak Black».
Qual è il tuo processo creativo?
«Mah, ultimamente ci penso di più, prima scrivevo a flusso di coscienza. Andavo in studio, magari dopo aver bevuto qualcosa, e scrivevo e registravo sul momento. Adesso sono più perfezionista, mi metto lì a lavorare su tre frasi per ore, perché devono essere perfette. Ma alla fine cerco sempre di far uscire le parole in modo naturale. A volte basta una parola e poi costruisco la strofa attorno a quella».
E ti segni le cose quando ti vengono in mente?
«Ho sempre il telefono pieno di appunti, anche frasi che mi vengono mentre dormo. E quando scrivi per te stesso, scollegato dalle dinamiche del mercato, esce quella roba forte. Senza pensare troppo ai social o a chi potrebbe piacere».
Parli di Tato, di Ruggero che parcheggia, dei tuoi amici che citi nei testi senza introdurli e spiegarli. 
«È importante che le persone capiscano che tipo è Ruggiero. Quando dico “Tato impenna e fa tutto quanto il viale contromano”, cazzo, lo vedi. E da come lo racconto capisci pure che tipo è Tato, che forse è piccolo, d’età o di statura, e il fatto che vada contromano ti fa capire che è uno che vuole farsi notare».
Te lo immagini con il Booster.
«Sì, o quello o l’SH… Quando faccio certe cose è tutto di getto. Magari qualcuno mi dice che tecnicamente è semplice, ma il punto è che in un minuto e mezzo devo farti vedere il mio quartiere, la mia città, come li vedo io».

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Tu soffri?
«Ho iniziato a fare musica per esprimere la sofferenza. Cerco di essere cinico per difendermi, anche se, alla fine, penso tanto all’amore. È una delle cose più importanti, avere qualcuno al tuo fianco».
Cosa desideri per la tua vita?
«La felicità e una famiglia unita. Non l’ho mai avuta e vorrei costruirne una».
E il rapporto con i tuoi ora?
«Bello. Mio padre mi aiuta a essere grande, mentre mia madre vive in Sicilia adesso. Mi viene a trovare ogni tanto».
Quanto sei legato alle sue origini?
«Non sono mai stato in Sierra Leone ma da lei ho percepito molto il senso dell’ingiustizia che ha vissuto sempre sulla sua pelle. La storia dei diamanti è una storia di sofferenza. I ribelli con i diamanti finanziano le loro guerre, costringendo la gente a lavorare nelle miniere. Vedere una collana di diamanti mi fa pensare a chi soffre questa situazione, ma qui da noi sul diamante hanno costruito una narrativa delirante, che deve stare per forza sull'anello, che è per sempre. Il nostro benessere grida vendetta, è macchiato di sangue. I diamanti si potrebbero fare anche sintetici». 
Sembra una consapevolezza anche un po’ politica, no? L’Italia, come la vedi?
«È un casino l'Italia. Siamo tra i pochi che ancora hanno un certo "cuore", capisci? In America, per esempio, sono molto più concentrati sui soldi, sui loro affari, c'è meno sentimento. L'Italia è bella, abbiamo una cultura che tanti ci invidiano. Però, non valorizziamo chi può portarci qualcosa in più, tipo io che mi sento sia italiano che africano. Dovremmo accettarci di più. Ci lamentiamo troppo».

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«Salvini? Dovrebbe usare la Marijuana, così magari si rilassa un po' e capisce che non è tutto bianco o nero. Meloni? Magari dei funghi allucinogeni, così le aprono un po' la mente. Elly Schlein? La valeriana…»

Ora ti dico il nome di un politico italiano e tu mi rispondi con la droga che dovrebbe usare. Partiamo da lui, Salvini.
«Marijuana, così magari si rilassa un po' e capisce che non è tutto bianco o nero».
Poi però per una settimana non può più guidare.
«Vabbe’, lui ha l’autista».
Meloni?
«Magari dei funghi allucinogeni, così le aprono un po' la mente».
Elly Schlein.
«A lei darei la valeriana, mi sembra già tranquilla».
Sei pieno di tatuaggi. Qual è il più significativo?
«Questo (una bandana con un loto al centro) rappresenta il mio stile di vita, fuori dagli schemi ma con radici profonde. Ho anche tatuaggi dedicati a Milano, una borsa per una scommessa, e ragni con significati personali».
Chi è l’uomo più figo di tutti i tempi?
«Mi viene da dire Alessandro Magno, ma magari era un coglione. Sai chi mi piace? Charlie Chaplin: faceva di tutto, recitava, dirigeva. E Tupac: sì, lui era figo».
Credi in Dio?
«Sì, ma a modo mio. Credo che ci sia una forza superiore, ma non seguo religioni. Prendo il meglio da tutto: parlo con amici musulmani, cristiani, buddisti… Ognuno ha qualcosa di interessante. Credo nelle energie, nelle influenze dei pianeti».
E come vorresti morire? 
«Penso spesso a come andarmene. Magari combattendo, ma con senso. O su una macchina bellissima, a sessant’anni. Voglio che quando dicono che sono morto, possano dire “È morto bene”, non così a caso. Non voglio lasciarmi risposte dietro». 

   L’intervista è finita, ma Artie è preso bene. Attacca le casse e mi fa sentire i pezzi del nuovo album: La Bella Vita. Diciotto pezzi. Che fanno capire soprattutto una cosa: il ragazzo è nel pieno di un percorso. Ci sono sound profondi, momenti molto alti, altri non allo stesso livello. Litorale con Guè è da riascoltare. Certo, Guè aiuta: quando è in mood depresso dà il suo meglio, il crack e il cazzo sono le uniche due cose a cui non ho ceduto, dice. Artie rappa: vengo da dove si spaventano per un cognome. Insieme sono i migliori cantori di Milano sulla piazza. E Artie è appena partito: se lo conoscete bene, se non lo conoscete imparerete a farlo. Il piano di Pietà ti mette sull'attenti: Artie e Kid Yugi sono in una versione inedita, riflessivi, melodici. Sta traccia è una preghiera. Mi dice: «Dalle mie parti la musica ha ancora quel bisogno di dire, di farsi sentire. Il rap è rimasto quel genere che può parlare davvero alla gente, a chi sta fuori, a chi è in comunità, a chi è in galera. Il rap dovrebbe essere genuino. Se parli di strada devi essere autentico e oggi molte cose sembrano solo pose». Gli chiedo se non ha paura di cedere anche lui prima o poi. «A volte sì, ma scrivo proprio per ricordarmi chi non voglio diventare. Ormai dev’essere tutto leggero, tutto a misura di social. E io non voglio cedere al culto del superficiale. Ci sarà un risveglio prima o poi». Lo saluto. E lo abbraccio. Perché è bello finire così, con questa frase.  

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Io non voglio cedere al culto del superficiale. Ci sarà un risveglio prima o poi - Fine

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