Prologo: È sporco, rovinato, vecchio, con le scritte sbiadite. Lele Adani lo prende in mano. Lo solleva come un si fa con un’ostia, me lo mette davanti agli occhi e con un tono sacro mi dice: «Il pallone vero è questo qua». Per capire davvero cosa intende dobbiamo tornare indietro. A qualche ora prima. Piove. Ma piove proprio tanto. Lele Adani tira fuori la testa oltre una porta nera, alza il braccio, vedendoci correre urla quella che è diventato la sua frase: «L’allenamento si fa!». Grandine, neve, sole, pigrizia, l’allenamento si fa significa che non ci sono scuse, non ci sono giustificazioni: bisogna lavorare su se stessi, sul proprio essere, fisico e di testa. Sempre. Lele Adani ci abbraccia come se ci conoscesse da tempo, ci scorta nello studio di un suo «fratello», l’amico Simone Fugazzotto, artista diventato famoso in tutto il mondo dipingendo scimmie nei tipici atteggiamenti di un essere umano. Oltre a loro c’è anche Carlo Pizzigoni, scrittore e autore di Federico Buffa. Si ritrovano spesso qui, sul tavolino patatine e Coca Cola, rigorosamente Zero, libri e frutta. Un piccolo circolo di letterati. Ma Adani arriva dai campi di calcio, ex difensore di Brescia, Lazio, Inter, Fiorentina, adesso commentatore tecnico di Sky. Il migliore secondo noi. Perché ci mette lo studio e il cuore, il cazzeggio e la lungimiranza, l’adrenalina e la riflessione, Sky Sport e la BoboTv su Twitch, perché ha un altro livello di lettura delle partite e di linguaggio, perché si entusiasma per un piccolo gesto che in realtà rappresenta l’iceberg di una storia, perché è prima di tutto un tifoso, e spesso per questo viene attaccato, ma in realtà è tifoso del Calcio con la C maiuscola. Anzi con la F, quella di Fútbol, e ne parla come un vescovo parla del Signore. Da illuminato.
Tu ce l'hai la vena artistica.
Si stravacca: «Io ricerco sempre la connessione cuore e mente, l’apertura mentale e quella spirituale. Quando vengo qui e mi raccontano le cose di altri mondi, letteratura, cinema, arte, io le riporto nel mio, di mondo. Tutto nasce dal sentimento, tutto, anche il calcio».
Eppure nel calcio questa apertura non siete in molti ad averla.
«Molte volte crediamo che le cose pop siano banali e superficiali, invece più una cosa è pop più necessita di approfondimento e curiosità, ed è per questo che da divulgatore di calcio rispetto la cultura ancora di più di quando vivevo il calcio da bambino o da giocatore. E poi il calcio è un mondo in continua evoluzione, fatto di storie, di analisi. Appartiene all’umanità in modo molto profondo, anche se in pochi lo capiscono o lo vogliono accettare. È una delle cose che, più di tutte, è di tutti, unisce tanti mondi, qui per esempio ci sono uno scrittore, un artista, ci siete voi. Il calcio è fatto da gente che non si scompone mai, ma che animata dal tifo si commuove. È da qui che arriva il mio profondo rispetto per questo sport. Io non perdo la passione del bambino, anzi l’aumento ogni giorno, non la tradirò mai. Il calcio mi guida e io ci sto dietro con la testa, con il cuore e con i sensi».
Io non perdo la passione del bambino, anzi l’aumento ogni giorno, non la tradirò mai. Il calcio mi guida e io ci sto dietro con la testa, con il cuore e con i sensi
Racconto un aneddoto personale: sono sull’aereo di ritorno da Madrid, dopo aver visto la Juve perdere 2 a 0 contro l’Atletico Madrid ai quarti di Champions. Poche file davanti a me si mette a sedere proprio lui, Lele. La gente lo assilla e lui parla con tutti e non lo fa per cortesia, lo fa infiammandosi, gesticolando, con fervore. Dando retta a chiunque.
Da qui ho capito che per te parlare di calcio non è un lavoro, è vitale. Sbaglio?
«C’è di più. Il calcio allinea i ceti sociali, tutti ne possono parlare con tutti, e più hai scavalcato gerarchie, più sali, magari arrivando in serie A, più dimentichi da dove sei partito. La mia missione è quella di unire i protagonisti alla gente».
Ed è per questo che riesci a farlo in giacca e cravatta in uno studio Sky e in felpa sulla BoboTV, no?
«In tv hai delle scalette dentro le quali devi stare, la BoboTv è diretta, ma non cambia nulla, ciò che conta è il contenuto, sempre. Questa voglia di unire e mescolare mondi diversi ma vicini al calcio mi appartiene, la cosa principale è arrivare alle persone, è il mio obiettivo».
Tu sei stato uno dei pochi a esporti per il calcio dilettantistico, in grande difficoltà.
«Mi cercano in tanti, presidenti, direttori, il calcio dilettantistico si sente abbandonato, ma è il fondamento del calcio, perché dopo la strada c'è quello, e prima delle serie maggiori c’è sempre quello. Io ho parlato a cuore aperto, sono arrivato da lì e ho amici che giocano ancora su quei campi e so quanto soffrono e le qualità che hanno».
Se chiudi gli occhi qual è il primo ricordo che hai con il pallone?
«Io e il mio migliore amico Massimo che giocavamo in via Curiel 2, a San Martino in Rio, il mio paese, per ore e ore, poi quando arrivava il vigile prendeva la palla e la buttava oltre il cancello; il vigile Remo, ottima persona nonché energumeno di due metri che doveva fare la parte del duro pur essendo un buono. Aspettavamo che andasse via e poi noi prendevamo un altro pallone»
Quanti anni avevi?
«4, 5… Poi a 6 anni sono andato nella Sammartinese e quando mi trovai sulla porta chiesi i palloni e loro mi risposero in dialetto: "Sono lì, svegliati”. Avevo già questa sorta di rispetto…».
Lo stesso rispetto che hai raccontato di aver avuto quando hai esordito in nazionale accanto a Paolo Maldini.
«Avevo paura di guardarlo, anzi pensavo addirittura di non essere all’altezza di dover ricevere un richiamo da parte sua, il pensiero di vivere la linea difensiva con lui mi metteva un po’ a disagio, volevo solo che arrivasse il momento in cui terminasse la gara e di poter realizzare che, davvero, avevo giocato in nazionale. Non riuscivo a godermi il momento».
È come se in qualche modo il tuo ruolo sia sempre stato quello del divulgatore.
«Non lo so, io ho sempre voluto vivere di calcio e nel calcio. Era il mio sogno e non avevo alternative che viverlo, ero talmente immerso nel sogno che non mi avrebbe fermato nessuno, questa è la mia indole, se tu non hai autostima la paura non ti fa giocare bene. So da dove sono partito e ogni giorno è stata dura».
Quando ti sei accorto di essere forte?
«Subito, ma la conferma definitiva è stata quando a 14 anni mi ha acquistato il Modena. Ti dico questa: ero negli spogliatoi dei Giovanissimi, l’allenatore da centrocampista mi aveva spostato a terzino, e tutti stavano parlando di cosa avrebbero fatto da grande, e io rispondo sicuro: farò il calciatore. Un amico si gira verso di me e mi chiede: “Ma davvero lo pensi”?. E io: be’, ma se siamo qui, cosa dovremmo fare scusa? Sai a quell’età anche se sei nel Modena quasi tutti sanno che finiranno nelle categorie minori, io questa ipotesi non la prendevo nemmeno in considerazione. Poi ho giocato due anni titolare in serie B, mi ha acquistato la Lazio e lì c’è stato un passaggio fondamentale, ho pensato che la serie A fosse troppo per me, tanto che a novembre andai in prestito a Brescia. E la mia vita è cambiata».
Hai conosciuto Lucescu.
«Un maestro, una figura calcistica senza tempo, avanti. Quegli anni mi hanno formato come uomo e calciatore e ho iniziato non solo a dare rispetto ma a pretenderlo, a esigerlo dagli altri».
Parlami dei tuoi genitori.
«Io ho preso la forza da mio papà, artigiano, e tutto il resto da mia madre, operaia, che è mancata 9 anni fa, ed è stato il momento più brutto della mia vita. Hanno dato la vita per far crescere me e mio fratello. Mio padre mi portava a vedere le partite, lui per me era un esempio, lavorava fino alle sette di sera, poi tornava, cenava e andava a fare l'artigiano fino a tarda notte in un capannone, sempre trattando il legno, mentre mia mamma, dopo otto ore di lavoro, si dedicava con dolcezza all’educazione dei figli. Era un'anima superiore, mia madre è stata la persona migliore che io abbia conosciuto nella mia vita, per una questione di cuore certo, ma anche di sguardi, di modi, delicatezza. Se uno dovesse dirmi come la raffiguro io rispondo: Dio. È stata per me testimonianza di fede».
Preghi?
«Chi ha fede prega, i modi di pregare e le conversazioni con Dio sono infinite e la cosa principale che mi dà la fede è l'ambizione di essere giusto e soprattutto la forza di non tradire mai il percorso che mi ha portato fino a qui. Il calcio mi ha permesso di realizzare un sogno, c'era prima di me e ci sarà dopo di me, e di questo ringrazio Dio ogni mattina e la gente deve sapere quanta fede ci ho messo ogni volta che ho fatto un allenamento oppure ci metto quando mi preparo a commentare una partita».
Dopo 2 anni di stop ho voglia di rivedere Allegri in panchina, perché lui è una figura interessante del calcio, al di là di quello che è successo tra di noi
Chi è un innovatore oggi?
«Adesso è il tempo di chi sa interpretare a proprio modo le innovazioni, per esempio De Zerbi, l’allenatore del Sassuolo, che rispetta i suoi pensieri, segue la sua ambizione, rimane fedele ai suoi valori e attraverso il calcio trova se stesso ogni giorno. Il punto qual è? Che tutti coloro che cercano una strada diversa all’inizio vengono visti come folli, filosofi».
Tipo?
«Te ne dico uno: Marcelo Bielsa, adesso allena il Leeds, è un illuminato. Un profeta. Influisce in profondità su tutto ciò che lo circonda».
Stessa cosa ha fatto Klopp con il Mainz, poi con il Dortmund e adesso con il Liverpool. Parlano a un popolo, più che allenare solo una squadra.
«La squadra è fatta da un popolo che ti sostiene, che tu rappresenti. L’allenatore ha il compito anche di arrivare al cuore delle persone, vedi anche Simeone. Come si fa ad allenare l'Atletico Madrid per 13 anni, passando da sconfitte, e ogni anno ricominciare da capo, dall'allenamento zero e ritrovare le motivazioni che ti portano poi a tornare a lottare per uno scudetto o per una Champions? Simeone è oltre il concetto di allenatore, e quando tu sei un capo popolo irrompe qualcosa che va al di là del risultato sportivo».
Chi ti manca invece? Chi vorresti vedere giocare ora?
«Maradona, perché lui non ha mai smesso, non è mai andato via, la verità è che Diego ha regalato talmente tanto, è stato talmente magico, che forse non ce lo siamo meritati».
Maicon, dopo lo scudetto con l’Inter, è tornato in Italia per giocare in serie D.
«Io ho fatto di meglio».
Per questo te ne parlo…
«A fine carriera sono tornato alla Sammartinese, ero ancora giovane, avevo 34 anni, ma dopo l'infortunio all'ernia che ho avuto con l'Inter non sono stato più il giocatore che ero prima e ho pensato che sarebbe stato bello concedere a me stesso e alle persone a cui voglio bene gli ultimi momenti della mia carriera, tornare nei campi dove mi allenavo da piccolo, a disposizione dell’allenatore che era proprio il mio amico Massimo, quello con cui giocavo a pallone per strada».
Se c'è una parola che mi viene in mente è umiltà.
«Se hai captato questo ti ringrazio. Umiltà e determinazione, perché l'umile si mette in gioco. Io sono un animale, condiziono il mondo intorno a me, sono esigente, non tollero mancanze di tatto e di rispetto, e spesso mi danno del presuntuoso, ma è il contrario. Se sei umile ti dai da fare, devi essere determinato a raggiungere ciò che vuoi raggiungere».
Chi è umile come te oggi nel calcio?
«Roberto Mancini. Io con il Mancio ho vinto la coppa Italia con la Fiorentina, era la sua prima esperienza da allenatore, avevamo un bellissimo rapporto, l'ho visto litigare con Rui Costa da uomo a uomo, non è scontato che un ex giocatore tiri fuori subito un carattere così quando diventa il mister. E si parla sempre troppo poco della rivoluzione che ha portato lui in nazionale».
Però quando è arrivato all’Inter non ti ha voluto come giocatore…
«Andai al Brescia e, dopo aver firmato, gli scrissi una lettera. Dopo 3 mesi mi telefona e mi dice: "Avevi ragione tu”».
Cosa c'era scritto in quella lettera?
«Eeeeh non te lo dico. Ma tutto ciò ha rafforzato la nostra amicizia».
E quando è ritornato all’Inter ti ha chiesto di diventare suo secondo ma tu hai detto di no.
«Ero all'inizio di un percorso da commentatore che sento ancora mio, era un percorso da vivere».
Chi è il più bravo telecronista?
«Vado in Sudamerica: Mariano Closs. E come analista Diego La Torre. Intendono il lavoro come lo intendo io. Preparazione. Non si legge Wikipedia il giorno prima di commentare un quarto di finale in Champions, per carità, liberi di farlo, ma per me il calcio non dorme mai: si scoprono sempre cose nuove».
Tu ti senti di aver cambiato un po’ il ruolo del commentatore tecnico? Più coinvolto, più dentro la partita, più tifoso?
«Io mi sono sempre prefissato di farlo in questo modo, non c'è alternativa per me».
Preferisco spingere a pensare e dividere che unire nella mediocrità e per la convenienza
Attualità: perché Massimiliano Allegri non è stato chiamato da nessuno?
«Onestamente non lo so, posso dirti che dopo due anni in cui è stato fermo, non mi dispiacerebbe rivederlo presto in panchina, magari in Italia, perché credo che sia il campionato giusto per lui, al di là di quello che è successo tra di noi».
Una litigata in diretta su Sky Sport, anzi più di una: vi siete mai risentiti e spiegati privatamente?
«No, non so se ce n’è bisogno, il calcio va avanti. È stato un momento forte, ma penso che la cosa più importante è stata ciò che ha scaturito, non quello che abbiamo vissuto noi, ovvero un confronto tra due uomini di calcio con toni un po’ accesi. L’avvento naturale del dibattito è il senso della comunicazione, soprattutto su cose che non sono approfondite a dovere».
Meglio vincere o giocare bene?
«Questa è una cazzata, chiunque giochi sa che il fine è vincere».
Come giudichi il primo anno di Pirlo allenatore?
«Al suo compleanno di due anni fa gli dissi: tu per me puoi fare l’allenatore, ma come tutti gli allenatori devi valutare che diventerà un lavoro h24, che devi conquistarti ogni giorno sul campo. Non viene regalata, ma va meritata una carriera. Pirlo può fare quello che vuole nella vita, è il calcio, poi c’è un quotidiano e degli obiettivi da centrare».
A proposito di percorsi: tu come giocatore ti senti un po’ sottovalutato dal pubblico? Eppure hai giocato al top e in nazionale.
«Era un periodo dove la nazionale era veramente forte… Guarda solo gli attaccanti: Inzaghi, Totti, Vieri… Io nel giro della nazionale ho fatto 4 anni, meritavo di fare i Mondiali in Corea, sono stato prima riserva e pensa che quando ero in nazionale io non venivano convocati giocatori come Ferrara e Costacurta. C’erano Materazzi, Cannavaro, Nesta, Maldini…».
L’emozione più bella?
«Il primo gol, a Modena. Palla messa dietro da Beppe Baresi, tiro, la metto all'incrocio e mi ricordo che arriva Provitali (un centravanti forte di quei tempi) che mi dice: “L'hai fatto, l'hai fatto tu, è tuo, però ora dobbiamo difenderlo”. A me è rimasto più quel gesto che molte altre cose».
Cos'è per te l'amore?
«L’amore è la più grande forma di rispetto verso te stesso e gli altri, per me è una condizione che allo stesso tempo è logica e illogica, razionale e istintiva. Arrivo a dirti questo perché se ti dovessi dire cos'è Dio, ti direi che Dio è amore, allo stesso la forza della fede ti porta ad aprire il cuore verso il mondo, verso le cose terrene e ultraterrene, io ricevo amore ma devo dimostrarlo nel quotidiano, perché c'è un compito da assolvere in questa vita e ognuno deve trovare il suo».
Mia madre era un'anima superiore. Con lei è andata via una parte di me, e quanto mi manca il suo abbraccio, non posso farne a meno eppure non lo trovo
Ci alziamo. Lele si cambia per fare le foto e sia mentre si prepara, sia mentre scattiamo, andiamo avanti con le domande.
Perché tu e Bobo Vieri vi chiamate cammello?
«È una stupidata: uno dei miei eterni amici quando ha iniziato a giocare a calcio lo chiamavano cammello, per postura, per modo di essere, e mi è rimasto. A Modena chiamavo tutti “lupo”. Luca Toni, che era nelle giovanili del Modena, quando ci vediamo mi chiama ancora così».
Pare che stiano per tornare gli spettatori allo stadio. Quanto è diverso realmente il calcio senza pubblico?
«Molto, ti spiego perché: quando giochi ti nutri di adrenalina, di autostima e tutte queste cose senza la gente sugli spalti le perdi, la mancanza di rumori ti segna. Infatti in questo calcio c'è poco ritmo e ci sono tanti errori, il pubblico ti chiama, ti fa stare più attento, e non è un caso che questo anno ci sono stati molti gol».
Se ti togliessero il calcio?
«Sarei perduto perché ha contribuito nella mia formazione come uomo, anche da un punto di vista interiore, mi ha aiutato a trovare il mio posto nel mondo. Non lo devo solo ai miei genitori e alla fede, ma anche al calcio che mi ha dato la possibilità di conoscermi e di conoscer persone in giro per il mondo. Il pallone è una condizione del cuore e dell’anima, non è solo una metafora, è la vita, è dentro tutti noi, anche chi non segue il calcio ne conosce le dinamiche: lo spogliatoio, le emozioni, le crudeltà, le contese».
Ultima volta che hai pianto?
«Accade, l’ultima volta è stata quando se n’è andato Maradona, però il pianto fino a perdere le lacrime l'ho fatto quando è andata via mia mamma. Con lei è andata via una parte di me, però la trovo ogni giorno, in una gioia o in una emozione, in una tazza di té piuttosto che nella brezza mattutina, ascolto la musica e tutto mi riconduce a lei e quanto mi manca il suo abbraccio, non posso farne a meno eppure non lo trovo».
Dio è amore, perché c'è un compito da assolvere in questa vita e ognuno deve trovare il suo. Il calcio ha contribuito alla mia formazione come uomo, mi ha aiutato a trovare il mio posto nel mondo
Chi è il prossimo fenomeno di cui parleremo?
«Io voglio pensare che qualcosa di unico al calcio lo darà ancora Neymar, lui viene dal Santos come Pelé e vive quest'epoca con la visibilità e gli eccessi propri di questi anni, riesce a mostrarti con le sue giocate che i sogni possono diventare realtà. E poi ci sono Haaland e Mbappé, un 2000 che ha già segnato più di chiunque altro e un 98 che ha già vinto praticamente tutto».
Su Netflix, Prime Video, Sky, ovunque, ci sono documentari e serie sulle squadre e sugli allenatori. Quali consigli?
«Alcune sono bellissime, entrano dentro gli spogliatoi, raccontano le dinamiche, i protagonisti, e scopri che se da una parte ci sono organizzazioni di altissimo livello, da un’altra ci sono ragazzi e uomini con le proprie insicurezze e paure. Consiglio tutto ciò che si trova su Mourinho, Guardiola in All or Nothing-Man City è geniale, ha un'apertura strategica e ti fa la partita in 3 mosse su una lavagna. Della serie All or Nothing è bellissima anche quella sul Brasile: l’allenatore Tite è un gigante, ti fa capire quanto c’è di spirituale in questo sport, e vedere come Dani Alves parla o fa pregare la squadra tutta insieme ti trasmette il senso sacro del calcio».
Lo scudetto è dell’Inter. L’Europeo?
«La favorita è la Francia».
Qual è la partita che avresti voluto commentare?
«Molto facile: 9 dicembre 2018, River-Boca al Bernabeu, però non so se ce l'avrei fatta a livello di cuore».
Qual è il motivo per cui sei così legato al calcio sudamericano?
«Ci sono due cose che mi portano lì. Una è l’amicizia con Matias Almeyda, centrocampista della Lazio, mi ha fatto diventare tifoso del River. E due, il fatto che sia un calcio più passionale, dove si esalta il talento».
Una tua partita che vorresti rigiocare o un momento che vorresti rivivere?
«Due cose anche qui. Fare i Mondiali del 2002 perché me lo meritavo. E rigiocare un derby dove l'inter vinceva 2 a 0 alla fine del primo tempo, poi perdiamo il controllo e perdiamo 3 a 2 con gol di Seedorf».
Tu eri nell’Inter quando il Milan andò in finale di Champions dopo un derby…
«Ero infortunato. E infortunati con me in tribuna, pensa un po’, c’erano pure gli altri della BoboTv, Ventola e Vieri. Nicola era fuori da diversi mesi, Bobo si era infortunato al quarto di finale a Valencia e io mi ero operato due giorni prima per una ernia che mi era uscita sempre durante la partita di Valencia. Siamo andati fuori con due pareggi su due, furono partite brutte. E Milano io non l’ho mai vista così tesa come in quelle settimane lì. Mi ricordo ancora il caldo che c’era. Era maggio ma sembrava agosto. La città era ovattata e in attesa del ritorno è stata ammutolita dalla tensione per sei giorni».
L’altro fenomeno della BoboTv è Cassano…
«Un uomo libero. Non sempre è necessario essere d’accordo con lui, ma ricordiamoci che è stato un genio del calcio riconosciuto dai più grandi, che hanno condiviso lo spogliatoio con lui. Per Totti è stato il calciatore più forte con il quale ha giocato. Di calcio ne capisce, eccome. Ha delle intuizioni uniche».
C’è un personaggio storico che avresti voluto conoscere?
«Ne ho uno e solo uno, il mio personaggio guida: Muhammad Ali, ce l'ho tatuato in tutti i modi. Ho la sua figura, il suo nome, la sua scritta “float like a butterfly, sting like a bee”. Il 25 febbraio del ‘64, lui a Miami sfida Sonny Liston, imbattibile, e lo sconfigge senza graffi sul volto, a 22 anni, scioccando il mondo. II 25 febbraio del 2014, esattamente 50 anni dopo, ho fatto questo tatuaggio»
C'è una frase che ti illumina?
«C’è una filosofia. Un modo di pensare, un modo di essere. Spesso mi dicono che sono una persona che spinge a pensare e che a volte divide, e io rilancio dicendo “preferisco dividere cercando un senso di giustizia che unire nella mediocrità e per la convenienza”».
Come vorresti morire?
«Io reggo ogni dolore morale ma ho paura del dolore fisico, quindi se possibile vorrei morire senza dolore, chiederò questo al buon Signore».
E sulla lapide cosa vorresti scrivere? Daniele Adani...
«Uomo giusto».