Tutto da rifare. Ogni volta. Neanche il tempo di gustarsi la vetta, neanche il tempo di ammirare il panorama, neanche il tempo di capire come si sta lassù, che la voglia di rimettersi in gioco, il desiderio di cambiare, di sperimentare, di provare qualcosa di nuovo, prende ancora una volta il sopravvento. Affezionarsi all’artista Samuel Heron è un atto di fede. Come alcuni dei più illustri tra i suoi colleghi ha scelto la strada più difficile: prendere per mano chi lo ama, per crescere assieme. Con una differenza: Samuel cresce a velocità 2X.
E così, se appena appena avevi cominciato a metabolizzare quel mix di elettronica e rap scanzonato che tanto aveva saputo identificarlo nel panorama musicale nostrano, oggi ascolti le sue ultime produzioni e ti domandi se hai sbagliato canale. Infatti, dopo l’uscita di Nella pancia della balena, un potenziale tormentone estivo realizzato in collaborazione con i The Kolors, Samuel ha di recente pubblicato Me ne batto r’belin, una sorta di ballad che sembra uscita pari pari dal repertorio di De André.
A questa ha poi fatto seguito Ragazzi popolari, una traccia dal retrogusto pop, con un break rappato in stile Ex-Otago di una volta, che pare quasi suggerire una possibile unione tra cantautorato “indie” e hip-hop (un matrimonio potenzialmente perfetto, stando alle classifiche degli ultimi anni), e Ubriaco (per davvero), pubblicata ieri, fatta anch'essa solo di voce e chitarra.
“Sono molto drastico” dice, nel bel mezzo di una cena di pesce, in un ristorante di Monterosso, dopo aver scattato le foto che vedete per mano di Jacopo Benassi - un altro spezzino, un gigante, uno che fa Arte con la A maiuscola e che ti conquista con la sua innocenza. “Sono un kamikaze. Mi scontro con le mie stesse idee del passato e cerco di distruggerle. Anzi di distruggermi. Per rinascere poi, per riemergere. Anche nei miei live sarà tutto nuovo”.
Ti riferisci alle tue ultimissime produzioni? “Sì esatto, a Me ne batto r’belin e Ragazzi popolari. In quei video, in quelle canzoni c’è la mia vera natura. In passato ho sempre mostrato il mio lato più goliardico, direi più superficiale. Ma in questo momento della mia vita, sia personale che artistica, sto cercando altro”. È stato un cambiamento drastico o graduale? “È stato graduale. Ma ho deciso in maniera drastica di comunicarlo all’esterno, attraverso la mia musica”. Perché, in realtà, Triste, l’album che hai presentato solo lo scorso anno, è molto vicino al mondo di Illegale e delle tue precedenti hit, come Illegale, Ci sta o TT OK. “In realtà l’album è stato pubblicato in un momento di passaggio. La percezione che gli altri avevano di me era la cosa che mi frenava di più, nell’attuare questo cambiamento. Per me, il modo più semplice è stato dire ‘ok ciao io sono un’altra persona, chi mi vuole seguire, mi segua, gli altri ciao!’”.
Sono cambiate anche le tue frequentazioni? “Beh sai negli ultimi anni la mia vita era molto legata al mio lavoro. Le mie frequentazioni avevano sempre a che fare con la mia carriera e quindi erano molto di passaggio. Io invece nei rapporti umani cerco sempre la profondità. Ho provato ad adattarmi per rimanere dentro quella cerchia, quel giro, ma non ce l’ho fatta, non fa parte di me. Le mie amicizie durano da vent’anni, sono gli amici con cui sono cresciuto, io ho bisogno di questo tipo di rapporti”. Ne hai di questo tipo, con qualcuno, a Milano? “Quando mi sono trasferito lì forse ancora c’era una qualche forma di confronto umano, di scambio di idee. Ora c’è solo un grande timore che l’incontro con l’altro possa portare a rovinare i propri interessi, l’orticello che ogni artista si è creato. È una cosa che mi distrugge. Vivere i rapporti in questa maniera è dilaniante! E questo è uno dei motivi per i quali me ne andrò via da Milano”.
Ho visto, infatti, da una delle tue Instagram Stories, che hai detto di essere in procinto di cambiare vita… “Sì lo sto facendo. Ora la mia ragazza fa l’infermiera su a Milano. È stata catapultata in tutto quello che è successo a causa del Covid, ha cambiato ospedale. Ma l’idea è di spostarsi nel giro di qualche mese”. Ma tu vuoi tornare a La Spezia? “Ni. Probabilmente andrò in Toscana. Perché Spezia mi tiene ancorato a quel ragazzino, a quello che ero”. Perché la Toscana? “Perché la mia ragazza è di Lucca. È una città molto viva dal punto di vista dell’arte e della musica, che mi può permettere di non distanziarmi troppo da ciò che amo. Ho potuto visitarla in questi anni e ti dico che è una città super vivibile e serena. E io faccio musica per cercare la serenità”. Davvero fai musica per questo? “Sì. Poi, ovviamente, è anche un lavoro, qualcosa che mi permette di avere una vita normale, delle soddisfazioni, di arrivare a un sacco di persone. Però il vero motivo, quello per cui tutto è iniziato, è stare bene con me stesso e trovare la serenità”. Non lo fai per comunicare qualcosa? Per esprimerti? “Sì certo. Però non è il fine. Mi esprimo ma per arrivare a una serenità”.
E in questo cambiamento radicale, l’etichetta ti è venuta dietro serenamente? “No, serenamente direi proprio di no, però, sai, a volte io sono un ragazzo molto insicuro, ma in altre occasioni, quando sono certo di volere qualcosa, riesco a comunicarlo in maniera molto netta. Quando ho parlato con l’etichetta di questo mio desiderio di ripartire mi è stata data fiducia”. Se noi parliamo di cantautorato e di autori giovani in Italia è automatico riferirsi a tutto quel mondo che in maniera più o meno propria viene identificato con il termine Indie e che, adesso, di fatto, è pop. Ha senso accostarti a questo immaginario, in prospettiva? “È un ambiente a cui sono già vicino e con cui mi trovo molto meglio, rispetto a quello da cui provengo, forse anche per una questione anagrafica, per il fatto che le persone con cui mi rapporto sono più mature. L’altro giorno ero da Francesco degli Ex-Otago, ci siamo trovati a casa sua. L’ho ringraziato tantissimo perché, in dieci anni di carriera nel rap-game, non mi era mai successo di poter vivere uno scambio artistico e umano di questo tipo”.
C’è qualcuno di questi artisti che ti piace più degli altri? “C’è Brunori che mi piace, ma anche lui, comunque, è molto più adulto. Mi piace Calcutta. Per me è stato il primo amore. Quel disco registrato nell’armadio. Cos’era il 2016? Io andavo ai suoi primi live a piangere, dilaniato perché mi aveva lasciato la tipa. Ex-Otago, Franchino (Franco 126), ci sono tanti che mi piacciono. Però anche lì, spesso mi sento diverso. Io ho un background molto popolare, come racconto, appunto, in Ragazzi popolari. I ragazzi universitari che fanno indie non hanno quel tipo di radici. In loro c’è molta più leggerezza”. Puoi fare un singolo con Anna Pepe (anche lei spezzina, nda) solo per me, per piacere? “Guarda ti dico perché no… Io non sono mai stato uno che cerca di farsi trainare da qualcuno. Anna ha avuto un successo pazzesco e mi sembra che tutti ne vogliano un pezzettino, che tutti le vogliano bene per questo. E io ho paura per lei, perché è una ragazza giovane”.
Ma questa cosa di volerti sempre reinventare, di essere sempre sull’orlo del precipizio, un passo più avanti di tutte le persone che hai intorno e che ti seguono, non è in qualche maniera limitante? “È sempre stato limitante ma è sempre stata anche la mia forza. Di recente ho cancellato il mio vecchio profilo Instagram e ne ho creato uno nuovo. Mi sono arrivati tantissimi messaggi. Stanno comprendendo, stanno capendo chi c’era dietro quella figura, chi sono io. È chiaro che è come ripartire da zero: con umiltà dovrò crearmi un nuovo pubblico, questa è la sfida”. Ok, facciamo un passo indietro. Nato 29 anni fa, a La Spezia, che bambino era Samuel Costa (questo il suo vero nome, nda)? “Ero un bambino un po' particolare. La mia infanzia non è stata frivola come quella di tanti amici delle elementari”.
Ho letto della separazione dei tuoi. C’entra qualcosa? “La separazione ha sicuramente influito. Alla base, però, c’è un’innata sensibilità. Sono sempre stato molto attento a ciò che mi succedeva attorno. E questa cosa mi ha reso in qualche modo un bimbo meno sereno. Mi sono fatto carico di problemi che non dovrebbero riguardare un bambino di quell’età. I bambini dovrebbero giocare al mare e io invece facevo i conti a fine mese con mia madre perché eravamo in uno stato di semi povertà”. A quando il primo approccio con la musica e con l’arte? “Mia nonna lavorava in radio e da bambino mi portava con sé. Mia mamma ha sempre ascoltato tanta musica italiana: Mina, Loredana Berté, Mia Martini, principalmente. Anche lei ha questa vena artistica, che però non ha mai potuto esprimere davvero. Poi, a 12 anni ho iniziato a ballare”. Ma tu, a 12 anni, un bambino interessato alla danza, a La Spezia, come te la vivevi? “Sono sempre stato fuori luogo. Sempre, sempre da un’altra parte. I ragazzini andavano al mare, io andavo in palestra ad allenarmi”. Ti prendevano in giro? “Eh sì, anche perché esteticamente ho cominciato ad avvicinarmi all’hip-hop. Tu pensa andare in giro così, nel 2003, a La Spezia”. Tu sei uno degli ultimi ad essersi formato prima dei social. “Sì, esatto. Io andavo a cercarmi le cose. A La Spezia abbiamo una scuola di hip-hop molto importante, per la break dance. Ero molto affascinato da quel mondo ma era una scuola molto severa. Se non facevi bene le cose, erano schiaffoni. Se dipingevi nel muro dove non dovevi, schiaffoni! Molto limitativo da quel punto di vista. Però formativo. Anche lì, vedi, da bambino non sono stato bambino, da ragazzino neanche, da adolescente zero”.
E adesso? “E adesso non ho 29 anni, ne ho 65 (ride, nda)”. L’idea di fare musica è iniziata in quel periodo o dopo? “Avrò avuto 15 anni. Frequentavo sempre persone più grandi di me, tra cui Sandro, questo mio amico, che ha iniziato a girarmi i primi dischi di Bassi Maestro e lì mi sono detto: ‘cacchio esiste anche in italiano questa roba’. Così ho capito che la mia voglia di esprimermi e di raccontare poteva avere uno sbocco. Sai, io comunque avevo un risentimento nei confronti della vita, di quello che mi era successo, del mio status economico e familiare. Anche se poi mi sono vissuto male anche sta cosa della musica, all’inizio”. Perché? “Perché io se faccio una cosa la faccio sempre super seriamente e anche quando ho iniziato a scrivere l’ho presa subito come un lavoro”. Quindi hai iniziato subito con la scrittura? “Ho iniziato facendo beat! Avevo questo computer portatile di mia mamma… Con un microfono registravo la cassa di una tastiera gigante. Poi ho comprato la mia prima scheda audio e ho iniziato a registrare non solo me ma tutti quanti. Venivano tutti a casa mia a registrare le loro strofe e se sbagliavano li mandavo fuori a calci. Queste persone tutt’ora fanno musica e io sono fiero di avergli rotto le palle”.
Cosa volevi fare da grande in quel periodo? “Volevo fare lo spazzino!”. Lo spazzino?? “Mi piaceva di l’idea di lavorare di notte, il fatto di essere in giro mentre la città dorme”. E come hai deciso, poi, che la musica sarebbe stata il tuo lavoro? “Dopo anni di rotture di palle, c’è stato un episodio che mi ha coinvolto, legato a una serie di frequentazioni che avevo, un po’ turbolente…”. Tipo? “Preferisco non scendere nei particolari. Però, ecco, questo rasoio (indica un tatuaggio, nda) mi ricorda quel periodo lì. Diciamo che all’epoca se facevi musica si mettevano a ridere tutti quanti, ma se invece davi gli schiaffoni eri considerato uno serio. C’era questa fissazione con il fatto di essere rispettati… e questa cosa aveva beccato anche me. Insomma c’è stato questo episodio che mi ha fatto dire ‘ok questa città non fa per me, mollo il lavoro e vado a Milano’”. Com’è stato l’impatto con la grande città? “Brutale. Abitavo in questa casa con dei coinquilini che non conoscevo…”. In che zona? “Stavo In Via Vespri Siciliani, vicino piazza Napoli. Milano ancora con la nebbia, da solo. Era la fine del 2011. Senza soldi. Andavo a fare la spesa con la calcolatrice. Mi sentivo vivo e libero ma non conoscevo la Milano da viversi coi soldi. Conoscevo solo quella dello sbatti”.
E tutto il giro Ghali, Ernia, Fedez? Come siete entrati in contatto? “Fedez era venuto a suonare in Toscana e grazie a un amico in comune, Millelire, un ragazzo di Spezia, ci siamo conosciuti. Conta che loro non erano quelli di adesso, eravamo tutti degli scappati di casa. Si è creata questa specie di compagnia a Milano, ma io comunque mi sentivo sempre solo. Per mantenermi facevo dei mix, avevo venduto delle basi, mentre cercavo lavoro. Stavo in questa casa, con stanza condivisa… Fino a quando non è venuto su Mike, da La Spezia. Per staccarci dalla negatività di La Spezia abbiamo deciso di diventare colorati e di prenderci un po’ in giro. È stata quella la chiave, da lì è iniziato tutto”. È vero che appena sei arrivato a Milano ti sei tatuato in faccia? “Sì”. Perché i tatuaggi sul viso? “Mi hanno sempre affascinato. Era dalle medie che dicevo a mia mamma che volevo tatuarmi in faccia. Mi piace che mi permettano di comunicare qualcosa fin dal primo sguardo. Sono espressioni della mia persona”. Mi colpisce che tu abbia bisogno di esplicitare dei concetti al punto da doverli scrivere. Come se conoscerti o parlarti non sia sufficiente. “Sai non con tutte le persone io riesco a parlare, non riesco sempre a farmi conoscere. E poi mi piace l’artigianato del tattoo, la bottega, l’atto del tatuaggio”.
A proposito di gente tatuata, quando è arrivata la firma con l’etichetta di Fedez? “Con Mike abbiamo fondato i Bushwaka, che ci hanno dato i primi riscontri, in termini di pubblico. Con Federico continuavamo a frequentarci alle serate, ma lui non sapeva che noi facessimo musica. Ci conosceva per la nostra goliardia, andavamo nei club con le piume nelle orecchie, vestiti fluo, appariscenti e scatenati. Il giorno in cui doveva uscire il nostro terzo singolo, Phai come vuoi, ci ha chiamato: ‘raga venite qua che devo dirvi una cosa’. Ci ha detto che stava fondando un’etichetta con AX e che voleva firmassimo con lui. Quindi ci siamo trovati non solo un’offerta discografica ma anche un’offerta di un amico. Poi nel frattempo noi frequentavamo anche Charlie Charles che stava cominciando a produrre il giovane Sfera. Ci siamo goduti quel fermento milanese… che ora non sento. Forse anche perché vivo a Milano in maniera diversa…”.
Ma sei tu che hai preso le distanze da sta roba? “Allora è andata così. Federico e Ghali si sono divisi, quindi noi stando con Federico ci siamo divisi anche noi dalla compagnia di Ghali e degli altri”. Però è tanta roba che voi eravate un gruppo e in così tanti siete riusciti ad avere un percorso nella musica, ad avere tutta questa visibilità. “Era un momento magico. Noi eravamo sempre rinchiusi nelle nostre case, con la voglia di prendere il posto di quelli che sentivamo alla radio. Questa cosa ci ha dato una spinta pazzesca. Adesso c’è la tendenza a emulare, a standardizzare quello che già c’è. Non c’è la voglia di distruggere, di innovare. Io lo vorrei un ragazzetto che ti dice ‘mo’ ti levo io’”. Il primo pezzo che hai detto “wow, sta succedendo qualcosa”? “Non ho mai avuto una botta da zero a cento e ti dirò: mi piacerebbe che fosse di nuovo così. Sai, nonostante in un certo momento, in passato, io abbia avuto poca continuità, da un punto di vista artistico, per fattori che non sono dipesi da me, la mia carriera è andata avanti…ho fatto un sacco di live. Perché? Perché ho raccolto i frutti del mio lavoro. Ora si cerca subito la viralità, ma, quando la viralità finisce, ciao! Quindi ti dico che, soprattutto ora, preferisco magari faticare un po’ di più, un anno o due, e poi raccogliere i frutti di quello che ho seminato, piuttosto che fare il botto e nel giro di qualche tempo essere da capo”.
Escono i primi singoli come Bushwaka, firmate con Fedez e poi arrivano i successi che ti fanno conoscere al grande pubblico, come Illegale, Tutto ok e Ci sta. Hai detto che quando li hai realizzati eri in un periodo brutto della tua vita. Cos’era successo? “Ero stato lasciato dalla mia ragazza con un messaggio e avevo preso le distanze dal progetto Bushwaka. In più non avevo persone intorno che mi supportassero davvero e così mi sono ricostruito da solo. Sono ripartito da capo, come al solito. Non è che io, all’epoca, abbia finto di stare bene, eh. Facevo festa, ma poi il giorno dopo stavo male, mi mancava una parte importante. Però il fatto di sentirmi vuoto e solo mi ha reso in qualche maniera più forte”. Con il passare del tempo si sta assottigliando la distanza fra Samuel persona e Samuel personaggio? “Sì, decisamente”. Il fatto di non avere un personaggio… non ti rende… “Vulnerabile, dici?”. Esatto. “È il mio mestiere. Io mi devo far attraversare da tutto, prenderlo e ributtarlo fuori sotto forma di musica. Non posso avere uno scudo. E poi, quando salgo su un palco, voglio essere io, non il mio personaggio”.
Sei molto attento alla tua immagine? “Mi piace la moda... però io non sono fissato con i brand, non ne conosco mezzo. Questi pantaloni sono di Zara ma li ho fatti accorciare dal mio sarto. Se mi dici Off-White, Supreme, boh io non so niente. Non mi entusiasma neanche come cosa. L’unica cosa con cui ero fissato sono le Huarache (le Nike di cui parla nel brano Huarache (freestyle), nda). Ne avrò 50 paia. Perché ne avevo comprate tante all’inizio e poi ai live è capitato che qualcuno me le regalasse e io dicevo: ‘cazzo raga costano più di 100 euro’”. Tipo i Run DMC con le Adidas! “A me Nike non mi ha mai cagato ma la gente è impazzita. Me le portavano da firmare!”. Quanto è ricercata la semplicità nelle tue canzoni? “Un mio amico che faceva i graffiti mi diceva sempre: ‘un writer bravo lo vedi quando su un treno ti fa lo stampatello’. Tu dici ‘beh semplice’, poi quando lo fai tu viene una merda. Se tu hai tre suoni ma non sai scegliere vari elementi tipo il basso che si incastra in quel momento, viene una merda”. Per altro nelle tue ultime tracce (penso a Me ne batto r’belin), questa cosa è evidentissima. “Sì, bravo. Una chitarra e una voce. Sembra che uno ti dica ‘ah beh dai una chitarra e una voce’. Sì, ok, rendila solida una cosa così. Come i tattoo tradizionali, tre colori ma reggono”.
A uno sguardo disattento questa cosa può essere confusa con la banalità. “Chi ha questa percezione probabilmente non apprezza la mia musica. Non mi interessa neanche arrivare a gente così. Anche dietro a battute come “pancia mia fatti una canna” (contenuta in Ci sta, nda) c’è sempre e comunque stata una testa pensante. Non è che mi svegliavo la mattina e la scrivevo così…”. Cosa dobbiamo aspettarci il prossimo anno da Samuel? “Il prossimo anno? Oddio non lo so. Secondo me smetterò di far musica (ride, nda). Il prossimo singolo, Ubriaco, uscirà il 6 agosto, proprio mentre questa intervista è on line. L’album più avanti. Ho paura degli album”. Perché? “Perché l’ultimo non sono riuscito a lavorarlo come avrei voluto. Sono contento di quello che ho fatto ma avrei voluto dargli ancora più valore. Con un disco è difficilissimo. Non riesci a farlo allo stesso modo per tutti i pezzi, a meno che tu non abbia una portata gigantesca come artista. Io sono piccolino. In questo momento storico tutto si esaurisce subito, tutto è veloce. Tre giorni dopo che era uscito mi sembrava già vecchio e questa cosa qui mi ha un po' segnato”.