Partiamo da un fatto, chi insulta sui social la modella armena Armine Harutyunyan è un mezzo analfabeta funzionale. C’è da averne pietà. Come è un fatto che la modella sia agli antipodi di ogni canone estetico con cui la moda, il cinema etc ci hanno ingozzato da sempre. Cosa vi aspettavate? Cresci con Naomi, la Evangelista, Bella Hadid, la Schiffer e poi ti ritrovi lei, è normale che non aggradi i tuoi gusti.
Purtroppo la filosofia di Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci, è fin troppo “alta” per un utente che va a scrivere offese nel profilo di una ventitreenne. Qualsiasi filosofia è alta in un contesto di click e like. Gucci ha capito che l’era dei belloni ha rotto le scatole e da tempo sta cavalcando questo filone di freak. C’è chi si esalta con questo, chi lo vede come una mossa di marketing. Adesso passiamo oltre.
Il tema sono i social. I social e la bellezza. Come mai l’utente medio va a blastare Armine?
Apro Instagram. Nei suggerimenti mi appaiono ragazzine col culo di fuori che hanno un milione di follower. Vado a vedere la loro pagina e mi sembrano sempre la stessa ragazza.
Tatuata, perfetta, al sole, in posti top, con la bocca socchiusa e ammiccante in delle pose che definirei da “escort”. Non andiamoci leggeri, diciamo le cose come stanno. Gli account di queste ragazzine che diventano influencer, modelle o chissà cosa, sembrano una pagina di pubblicità su un sito di escort. Il loro atteggiamento è quello, la loro dinamica seduttiva, i commenti che ricevono, tutto il loro successo è basato su quanto più ti intrigano. Emrata docet. Se non si mostrano in pose seduttive, nessuno se le fila. Se non si spogliano idem. E se non sei come loro, nessuno si filerà te.
Quindi nel 2020, col body shaming, la parità di genere, le quote rosa, le cause femministe, possiamo dire che se sei brutto, non andrai da nessuna parte (vale anche per gli uomini). Fa male, ma è così. Cesse con un milione di follower in costume a pecora non ne ho ancora viste.
Poi ci sono le donne impegnate, quelle che si definiscono “attiviste”, femministe, che non fanno altro che parlare di cazzo come le mie compagne di classe in terza liceo, che farsi vedere mezze nude rivendicando la libertà di farlo (giustissima a mio avviso), che si divertono a mostrare vibratori e parlare di squirting e orgasmi vaginali ma che non gli puoi dire che anche loro stanno un po’ sessualizzando il loro corpo per farsi notare, quelle che si battono per gli asterischi al posto della coniugazione femminile/maschile di un aggettivo.
Ma dove succede questo? Nella vita di tutti i giorni? No, nel telefono. Nei tweet, negli status, nei post.
I social sono il tema, li tutto dura troppo poco. Le donne avevano bisogno di ribellarsi a secoli di sottomissione maschile e io sono con loro in questa battaglia. La parità è un diritto. Ma questa roba che vedo su Instagram non c’entra niente con la parità di genere, è solo una messa in mostra caciarona e rizzacazzi per una corsa al successo. La tristezza è che una frase come questa non si può scrivere altrimenti ti tiri addosso menate infinite, offese, minacce di morte, ti ritrovi la bacheca impestata di insulti con una rabbia che è innaturale, pompata dal bisogno di mostrarsi, dalla voglia di rivendicare un'appartenenza, dalla noia che solo online si prova in misura così vasta.
Il problema non sono nemmeno i profili di queste “influencer”. Ben vengano, il problema è tutta la morale che ci viene fatta sopra, il doverli spacciare per emancipazione. Questo si, è il vero peccato mortale.