A Milano si parla sempre di moda. Tutto orbita attorno alla moda, è un universo che ti risucchia con una velocità disarmante. La moda è la parola chiave, il jolly. E anche chi probabilmente farebbe meglio a tacere, spesso preferisce dare aria alla bocca parlando di moda. Eppure quest’anno ho la sensazione che di moda non se ne sia parlato abbastanza.
In genere odio le ripetizioni, ma temo che stavolta sia necessario ripetere la parolina magica allo stremo per inculcarvi il concetto più banale e veritiero degli ultimi anni: la moda non la fanno più i creativi. O meglio, all’atto pratico (grazie al cielo) qualche creativo ai piani alti ci sta ancora. Ma l’immaginario moda non appartiene più a chi con la creatività ci campa. Forse nella maggior parte dei casi non esiste nemmeno più questo immaginario artistico immacolato, che si slega e si eleva dagli standard sociali. È come dire, Margiela non è più Margiela, Balenciaga non è più Balenciaga. Sono tutti morti ma nessuno lo sa finché rimane il logo. E continuando a snocciolare ovvietà, oggi l’abito acquisisce senso solo se qualcuno lo indossa. Ma chi lo deve indossare, per far sì che attiri la nostra attenzione e che porti a termine la sua missione di abito?
Si potrebbe risolvere la questione dicendo che quest’anno avevamo altro di cui parlare, e che la moda sia stata surclassata da questioni ben più importanti. Ma sarebbe troppo semplicistico, e le cose semplici per disposizione naturale mi snervano. Allora, giusto per innervosirmi in modo consistente ho fatto qualche ricerca su BoF (The Business of Fashion) e ho avuto la conferma alla supposizione che stava facendo capolino da qualche giorno nei miei pensieri più oscuri: a nessuno importa della fashion week se non ci sono gli influencer. Basandosi sui social, in particolare Instagram, risulta che i 42 brand che hanno presentato le nuove collezioni non sono nemmeno arrivati vicini al boom di audience dell’anno passato, pur faticando molto di più in ogni ambito creativo di produzione, dalle materie prime per gli abiti, ai modelli, alle location. Much ado for nothing? Teoricamente no, anzi tanto di cappello. Praticamente sì, perché la perdita nel bacino di interesse è stata consistente. Di base non è un dato così astruso, perché meno gente che ne parla equivale a meno gente che se ne interessa, e di conseguenza meno ricerche a riguardo. Aggiungiamoci il fatto che la fashion week si è svolta interamente online, ma al di fuori del brand stesso nessuno ha postato contenuti digitali che invogliassero il potenziale pubblico a guardare le sfilate. Nessuna Chiara Ferragni brandizzata e sgambettante on her way to the runway, nessun’eterea Emily Ratajkowski nei campi di lavanda alla sfilata di Jacquemus. Niente di niente. Ma aggiungo, giusto per innervosirmi fino in fondo: nessuna Miuccia Prada dalla prossima stagione, dato che questa era la sua ultima collezione prima di collaborare al fianco di Raf Simons. A qualcuno importava? E poi ditemi che non mi devo incazzare.
Si ritorna inevitabilmente al punto iniziale: la moda non la fanno più i designer, ma la gente che sta sotto ai “riflettori” digitali. I post degli influencer su Instagram generano molta più audience, e quindi molti più like, dei post del brand stesso. Questo accade perché il successo di un brand non è più solo merito del brand, ma di tutto l’entourage di persone che ci orbita attorno: giornalisti, partner, sponsor, celebrità e soprattutto influencers. I più attivi online, e per questo a primo impatto i più appetibili e i più vicini a noi comuni mortali che pendiamo dalle loro labbra, in attesa dell’#ootd (outfit of the day) che sfoggeranno per le strade di Milano il primo giorno di fashion week (che sia chiaro il “noi” era generico, perché io non sono affatto così). Ma senza di loro, che cosa rimarrà delle capitali della moda? La fashion week diventerà davvero quell’evento super esclusivo che ha sempre finto di essere?
È come se l’assenza di outfit strampalati che pullulano per le strade, rendesse meno credibile la moda stessa. Abbiamo bisogno di sbatterci contro, a volte anche di deriderla, per accorgerci che il tanto chiacchierato universo fashion è una realtà sociale concreta.
Dopo anni di democratizzazione imposta, il mondo della moda potrebbe ritornare intangibile, popolato solo da pochi degni eletti. Sarà una sorta di ritorno al passato ma digitalizzato, con strumenti sempre più all’avanguardia, per permetterci di vivere l’esperienza di una sfilata o di un evento legato alla fashion week come abbiamo sempre fatto, ma rispettando le norme di distanziamento sociale. Più ci penso, più mi sembra un sogno. Certo, niente Gilda Ambrosio in tacchi a spillo sotto il sole cocente di Milano. Ma è davvero così fondamentale? Immagino già il big hype dei i fashionisti misantropi (io), che sostengono che la marea di influencer usciti dal vaso di Pandora, o spesso dal cappello a cilindro, non fa altro che togliere credibilità al brand con lo spam ossessivo. Effettivamente la domanda sorge spontanea: se un brand ha dei valori, oltre a qualcosa di innovativo da comunicare, ha davvero bisogno di un bacino pieno di pesci da lenza per sopravvivere? Al momento la risposta è sì, a giudicare dai dati dell’ultima fashion week milanese. E se la situazione dovesse davvero proseguire in sordina, il giorno del giudizio arriverà per molti. Solo chi ha le carte giuste, sopravvive. Forse, sarà il caso di riportare in auge il semisconosciuto concetto di creatività. E forse, da quel momento in poi, la moda ricomincerà a diventare una questione seria.