Sul tavolo c’è una foto di Boris Johnson. La indica. Dice: “He’s a Tory bastard”. Parliamo di un personaggio televisivo inglese, Piers Morgan. E lui ripete: “He’s a Tory bastard”. Non capisci se Giorgio Locatelli stia scherzando o meno. Il suo tono è serio, non sorride, ti guarda dritto, con il mento leggermente alzato, e non abbassa lo sguardo. Giorgio Locatelli è no filter. Ha gli occhiali graduati, un completo blu a righe, una t-shirt bianca, un Panerai al polso sinistro, sneaker Adidas, calzini rossi. Mastica un chewing gum. Arriva dal Montenegro, lì per una consulenza a una catena di hotel di lusso. In Italia è famoso per essere uno dei giudici di Masterchef, sta girando la nuova serie proprio in queste settimane. Tra poco invece sarà il conduttore di un nuovo programma, Maitre chocolatier. Ci incontriamo al quindicesimo piano del grattacielo WJC. Sotto di noi campi da tennis, un parco, e tutt’intorno la city. Che non è Londra, la città dove si è trasferito, sposato, imposto, ma Milano, con le torri di Gae Aulenti e della zona Fiera laggiù, oltre le vetrate alle nostre spalle. Giorgio Locatelli mi ha sempre interessato perché da ciò che dice, da come si comporta, dai consigli che dà e dalle persone che si prende a cuore - accomunati tutti dalla stessa caratteristica, quella di essere degli stranieri dentro, alla perenne ricerca di se stessi - si capisce che ha una storia da raccontare fatta di sofferenza, scelte coraggiose che sono costate solitudine e fatica, ma che lo hanno forgiato e ripagato, reso sicuro, reso ciò che è: un uomo che parla lentamente, che per abitudine utilizza parole inglesi anche quando ti parla in italiano, che conosce il valore del sacrificio, che ti guarda dritto negli occhi, appunto, e che trasmette autorevolezza. Lui ascolta il mio pippone, si sistema la pochette, accavalla le gambe. Dice: «È stata una delle mie capacità quella di adattarmi, la cucina e il mangiare mi hanno fatto instaurare un rapporto diretto tra me e la gente. Questo è cominciato quando ero piccolino, andavamo a fare le feste e io facevo da mangiare. Non mi sono mai sentito un immigrato a Londra, mi sono sentito un immigrato in Svizzera, a Parigi, ma a Londra no, mai».
Se chiudi gli occhi, primo ricordo?
«Da piccolino con il mio nonno a grattare il formaggio, o con lui in mezzo ai conigli. Avevo due nonni, uno era rigido, di stampo scolastico, un gran gourmet, una di quelle persone che ci metteva in macchina per andare a cogliere i tartufi da mettere nel risotto del martedì. L’altro invece era di una semplicità incredibile, io sono cresciuto con lui. Era il padre di mia madre e aveva delle mani enormi: Mario».
La morte del nonno dalle mani grosse è stato il tuo dolore più grande?
«Sì, perché è stata la prima vera persona a cui volevo bene che è morta. Cazzo, ci conosciamo da dieci minuti e stiamo già parlando della morte… ».
E le figure femminili?
«Io avevo una nonna incredibile, Vincenzina, era ammirata da tutto il paese. Sai, a Corgeno hanno sofferto tantissimo durante la guerra, lei si era contrapposta pubblicamente a qualsiasi potere, sia fascista che comunista. Era una donna rispettatissima nella sua semplicità, la adoravo. Mi ha insegnato che cadere cadrai sempre, è rialzarsi che conta».
Quante volte sei caduto?
«Oh my god… Più di quelle che avrei voluto sicuramente. Dubbi, crolli, patemi».
Cadi tutt’ora?
«No, adesso le cose mi stressano molto meno, me le lascio scivolare, mentre un tempo non c’erano filtri, ma penso che riesci a ottenere qualcosa anche perché passi da momenti difficili».
Tipo?
«A Parigi, tre anni lunghi, umilianti».
Perché?
«Per come ti trattavano. Dovevi essere pronto a farti umiliare ogni giorno per lavorare, una cosa sbagliatissima. Dopo Parigi sono tornato a casa, non volevo più fare il cuoco, se avere successo nel mio mestiere significava diventare una pessima persona non era ciò che volevo. Fu mia nonna, in maniera filosofica, che mi disse: tu puoi essere lo chef che vuoi essere tu. Parole semplicissime ma di un verità che ti accende la luce, per questo le sarò sempre grato».
E dopo sei partito per un viaggio in moto…
«XL 500 Honda, verso la Spagna. Prima con una tipa che è venuta con me, poi lei è tornata indietro e io sono andato avanti, in Marocco. Dopo sono risalito e arrivato in Danimarca e Svezia. È durato due mesi e mezzo, quasi tre, ho trovato ‘ste danesi… Era l’84-85, era una cosa bellissima, non finiva mai».
Perché proprio la moto?
«Una passione condivisa con mio fratello, lui ha fatto una Parigi-Dakar, era uno tosto, morto nel 2014. Ma lui era un tecnico, io un romantico».
Tu andavi in pista e ti sei fatto male alla spalla. Con quale ci andavi?
«Ne ho macinate parecchie, la mia favorita era la RSV Aprilia. Dopo l’incidente la Plaxy ha venduto tutto, anche i caschi e gli stivali, avevo delle forcelle della Ohlins costavano 21mila sterline e lei cosa ha fatto? Le ha regalate. Non ti dico… Ha svuotato il garage mentre io ero a letto dolorante con la spalla. Un giorno sono andato giù ed era vuoto».
Auto?
«Mia moglie dice che sono solo un’affermazione del proprio status. Le spiego che spesso chi si compra una Lamborghini o una Ferrari le conosce e le ama davvero, più dei propri figli, ma un po’ ha ragione. Invece per me la moto è sempre stata senso di libertà, grazie alla moto sapevo che non ero destinato a stare per tutta la vita a Corgeno. E poi mi ha fatto capire che il mangiare è mangiare».
In che senso?
«A Parigi il cibo era considerato arte. Il viaggio in moto mi ha fatto capire definitivamente che non è così. Un cucchiaio di caviale può avere la stessa qualità di una patata cotta perfettamente, se la patata è perfetta chi lo dice che il piatto più buono è quello che costa di più? Se ci pensi noi uomini, cinque milioni di anni fa, eravamo alla base della catena di alimentazione, spezzavamo le ossa degli animali per succhiarne il midollo. Noi mangiavamo le ossa, i predatori il resto. Poi siamo saliti al top, facendo anche danni enormi, e la nostra visione di concepire il mangiare è cambiata. Ma a me questo lavoro piaceva perché è un lavoro di gente, passione, sentimento, cose che ti vibrano in mano, prodotti che hanno e raccontano una storia, un luogo, un passato».
Hai portato il coniglio al rosmarino a Londra: la tua storia è qui.
«Una cosa incredibile. Sai, gli inglesi, soprattutto quelli delle generazioni post Seventy-Eighty, sono cresciuti con i conigli che gli parlavano sui libri per bambini, è stato difficile farglielo mangiare… Per me il coniglio, a parte il cane, era l’unico animale che avevamo in casa. Decidevamo quale uccidere, quale spellare, quale cucinare. Sembra una cosa crudele, in realtà impari il rispetto e consapevolezza, perché ti rendi conto dell’importanza del ciclo alimentare e del lavoro che c’è dietro. Certa gente non lo capisce».
Come ci sei finito a Londra?
«Con 300 sterline, una valigia neanche grande e un paio di blue jeans. Forse era la prima volta che andavo in un posto così grande, dove potevi reinventarti ogni giorno, era un sogno per quelli nati a Corgeno come me. Tu la mattina a Londra ti svegliavi e potevi cambiare anche il nome, potevi fare tutto quello che volevi. Le esperienze più difficili sono quelle che ti formano di più, quelle belle te le ricordi e basta».
Vai di ricordi…
«Ho fatto l’interview e pensavo mi prendessero subito. Quando mi hanno detto “le faremo sapere” ho pensato merdaaa, tornare indietro non c’era verso, era settembre e dormivo in un ostello a King’s Cross. Il tempo passava, i soldi calavano e a Soho, zona italiana, incontro qualcuno al Bar Italia che tramite passaparola mi manda a lavorare a Hampton Court, una corte medievale bellissima. C’era questo ristorante che si chiamava Vecchia Roma, lì ho capito che non volevo cucinare italiano. In cucina c’erano solo spagnoli o portoghesi, la personalità del cuoco italiano mancava. Poco dopo sono andato a lavorare al Savoy e poi a Parigi».
Però a Parigi è andata male.
«Dopo il viaggio in moto sono tornato in Italia senza una lira, ero con il mio fidato cugino Gianda e andavamo spesso a Varese, in libreria. Un giorno torno a casa e mi dicono che da Londra aveva chiamato tale Mauro. Ritelefonò la sera e mi chiese se volessi andare ad aprire un ristorante perché il cuoco si era fatto male. Pensai: cosa devo fare qua in Italia? A Londra mi ero già trovato molto bene e mi ero accorto che mancava un po’ di edge alla cucina italiana. Ho detto mah… I take the challenge. Mi ricordo che non gli chiesi nemmeno quanto pagasse, non era il mio focus. Volevo fare di qualcosa mio. Mauro Sanna era sardo, c’era questo confronto tra le nostre cucine, mi piaceva veramente tanto. E da lì la carriera è decollata, non c’erano ancora i social media, solo 3 o 4 giornalisti importanti e il ristorante era un soffiata di aria fresca, era ancora stayed, trattoria. E poi già dalla prima volta che avevo lavorato a Londra avevo notato una persona…».
Fondamentale: la Plaxy, tua futura moglie.
«La prima volta che l’ho vista ero arrivato a Londra da poco, io avevo un maglione di Snoopy giallo e lei era su una Porsche. Per me era irraggiungibile, la Plaxy conosce mezza Londra. Su quel livello musica-arte aveva un circolo enorme, noi italian boys ok eravamo belli, ma non avevamo una lira. Ritornato dopo l’esperienza a Parigi, non me la sono fatta scappare. Quando ci siamo rivisti, ci ricordavamo molto bene uno dell’altra. Io abitavo con una sua amica e lei veniva a trovarci. Insieme abbiamo lavorato a Lo Zafferano e poi abbiamo aperto Locanda Locatelli, io in cucina, lei manager».
Quando vi siete conosciuti lei aveva già un bambino…
«Jack, che per me è come un figlio. L’ho conosciuto quando ne aveva tre, adesso ne ha 32».
Di Jack hai sempre parlato meno...
«All’inizio della mia carriera sono stato più con lui che con mia figlia Margherita, che adesso ne ha 23. Jacki ha dato grandi soddisfazioni e grandi problemi quando aveva 16-17 anni, ci siamo accorti che i figli devono avere più white board possibile, hanno bisogno di spazio, appena maggiorenne era indipendente, ora lavora come DoP, direttore della fotografia. È un cuoco eccezionale, ma fa da mangiare solo per gli amici. Una volta ci ha cucinato questo branzino aperto sulla schiena con delle erbe, spettacolare».
Margherita invece?
«Lei ha fatto psicologia, ma adesso sta finendo un master in Nutrition all’University of London, penso farà qualcosa tra le due».
Hai raccontato spesso delle sue intolleranze e di come questa sua caratteristica ti abbia fatto crescere come cuoco da una parte e ti abbia provocato la più grande paura della tua vita dall’altra…
«Avevamo già aperto Lo Zafferano, che era partito a manetta. La pressione è stata enorme, la Margherita nacque dopo. Da piccola aveva delle infezioni, è stata un mese e mezzo all’ospedale. Un’estate ci dicono di portarla al sole perché aveva degli eczemi. Andiamo nel sud della Francia. Jack è uno che mangia, era un bambino che mangiava trippa, lardo, tutto quello che gli davi. E gli piaceva il salmone, che mi ero portato dall’Inghilterra in valigia perché un conto è il salmone di qualità, un altro è quello confezionato. Un pomeriggio Jack voleva farsi un panino e gli avevo tagliato il salmone. A un certo punto lo sento gridare, aveva dato un pezzettino a Margherita e quando arrivai era già gonfia. Non sapevamo dove fosse l’ospedale ma appena usciti dal cancello in macchina troviamo una pattuglia dei vigili del fuoco. Li fermo, volevo chiedere dove fosse l’ospedale, il vigile vede la bambina e capisce subito la gravità della situazione».
E cosa fa?
«Le firebrigade hanno in dotazione l’adrenalina perché può servire per chi resta intossicato dal fumo. Questo vigile si è preso il rischio e gliel’ha fatta lì, così, lei ha iniziato a respirare e loro l’hanno portata all’ospedale. La Plaxy nel camion e io dietro a seguirli. Io pensavo fosse morta, però non avevo il coraggio di ammetterlo. E invece no, quando sono arrivato all’ospedale la bambina mi è corsa incontro, incredibile».
Hai pianto?
«Dopo sì, mentre ero lì avevo più adrenalina della fiala che le hanno dato. E poi io sono un tipo che I can go on and on and on when it gets worst, I never give up. Faccio fatica a dire basta».
Ci interrompono. Possiamo andare a mangiare al ventesimo piano, l’ultimo. Nell’ascensore parliamo della sua prima stella Michelin: «L’ho preso allo Zafferano. Nintynine (nel 99, in inglese), mi chiamò Gordon Ramsey: “You’ve got a star”. Fuck off e ho buttato giù. Poi l’ho richiamato subito, lui lo sapeva dal giorno prima». E di dove va a mangiare quando va al ristorante: «Al giapponese. Perché se dovessi andare in un italiano o francese starei attento a quello che servono, a come si comportano i camerieri. La mia mente continuerebbe a lavorare. I parametri giapponesi invece sono così diversi che riesco a rilassarmi, specialmente con mia moglie». Arrivati ammiriamo il panorama, da quassù si vede anche la facciata dal Duomo. E poco dopo ci accolgono al ristorante Unico. Prima portata, l’entrée: purea di patate calabresi della Sila cotta in un estratto di carote e agrumi (che è lo stesso estratto usato per la glassatura) e burro aromatizzato alla salvia. Finita la presentazione, ricominciamo l’intervista.
Da Londra il passaggio a Masterchef Italia…
«Mi avevano invitato a fare una comparsa e subito dopo mi avevano chiesto di far parte del team, ma non potevo perché avevo un programma con la BBC scheduled. Pensavo di aver perso l’opportunità e invece la signora Klugmann se ne è andata. Devi tenere in conto che il mio lavoro maggiore è a Londra, è uno sforzo venire qua tre mesi, non è un gran piacere però ne vale la pena. Per me è stata come una rivincita personale, se hai avuto successo all’estero quando in Italia non ti filava nessuno, tornare da giudice di Masterchef be’, son soddisfazioni».
Nel mix dei giudici di Masterchef hai dato un peso specifico, mancava uno dalla tua visione e personalità.
«Ho sicuramente contribuito ad allargare la visione. L’abbiamo portato in un’era ancora più moderna».
Credi in dio?
«No, sono agnostico».
I reali di Inghilterra sono venuti a cena da te.
«Sono andato io a cucinare da loro, per un pranzo. Prince Charles non usciva mai. È stata una cosa importante. Una sera, poi, sono venuti diversi membri della famiglia reale e c’era il tartufo».
Cosa ti hanno lasciato?
«Che dire? Hanno pagato il conto. La Locanda è leveler, non si fa tanta importanza a chi sei, c’è un’attitudine particolare. Non abbiamo mai fatto pubblicità sui nostri clienti. La Locanda per Madonna era diventato il suo ristorante. Con ospiti del genere ci vuole equilibrio. Bisogna farli sentire speciali e viziarli ma il tutto deve apparire estremamente naturale. In questo la Plaxy è bravissima, è easy, io mi cago nelle pants, loro sono supercool».
Hai criticato Boris Johnson. Ma è vero che l’hai chiamato caprone?
«Eh non mi ricordo ma ero molto arrabbiato, vedevamo che in Italia c’era un'escalation terribile di casi Covid e lui non chiudeva. Noi alla Locanda abbiamo chiuso e cancellato le prenotazioni prima di tutti gli altri ma la gente continuava ad ascoltarlo e ci diceva: eh voi italiani dovete sempre fare una tragedia di tutto”. Ma c’era già gente che moriva! In Inghilterra potevamo avere un vantaggio se guardavamo cosa stava succedendo negli altri Paesi. Menomale che la cassa integrazione ha funzionato bene, abbiamo percepito il risarcimento ogni mese. Questo potrebbe essere un merito di BoJo, però per quanto riguarda le vaccinazioni non è vero per niente, la NHS è più forte del nostro sistema italiano. E lui qui non c’entra niente».
Hai criticato anche Renzi, dicendo: «Dovrebbe davvero andare a lavorare come tutti».
«Non lo so forse l’ho detto quando c’era la crisi governativa e quando c’era bisogno che il Paese fosse unito. In Italia non è che ora siamo messi malissimo, ma quando vedo che la situazione di crisi viene politicizzata per fare inscoring, tutto ciò mi crea un po’ di scompensi».
Sei d’accordo sul fatto che la Brexit sia stata un errore?
«Ne sono sicuro, abbiamo problemi enormi, abbiamo tagliato fuori una fetta di mercato, abbiamo problemi con l’import e la taxation system. Il problema maggiore sarà con questa green card e per la gente che lavora, la maggior parte del personale è italiano e questo sarà molto difficile da avere d’ora in avanti».
Stai pensando anche tu di andartene da Londra?
«Abbiamo pensato di fare uno scale down e spostarci fuori, andare in un posto più piccolo, ma per tutta la vita terrò una base a Londra».
Magari a Milano?
«Non riuscirò mai a convincere la Plaxy a venire qua ad abitare, ci metterebbe troppo tempo per ambientarsi. Sarà difficile portarla via da qui. Molto più facile sarà farla trasferire in Salento».
Pro o contro ddl Zan?
«E come fai a essere contro?».
Adozione coppie gay?
«Se uno riesce a creare un ambiente familiare non vedo il problema. Vedo l’importanza di avere due personalità, quello per me è importante, due personalità costruiscono un building, il bambino. Mi fa più paura il single parent».
Pro o contro la Liberalizzazione delle droghe leggere?
«Pro, a patto che ci sia un’educazione di supporto. Abolire o censurare non ha mai funzionato».
Ti sei mai drogato?
Risponde immediatamente. «Sì, più che altro si drogavano quelli intorno a me, era un evento sociale, non è che mi svegliavo la mattina e mi drogavo. Specialmente quando eravamo giovani. Adesso però, nei confronti del mio personale ho zero tolleranza: ho visto troppi talenti perdersi per strada per colpa della cocaina e dell’alcol. In Inghilterra sono due problemi enormi. Nel nostro ristorante lavoriamo sempre con uno psicologo e facciamo test random, anche perché sono convinto che il proibizionismo non funzioni mai, l’educazione invece sì».
C’è qualcosa che vorresti ancora provare?
«Sono stato a Holbox, in Messico. Bellissimo, ma non ho mai avuto il piacere di provare il peyote. So di gente che però è partita da Londra per andare a Maiorca, l’ha provato e ha raccontato di aver fatto una crescita spirituale. Lo devo fare quello».
Pro o contro la Superlega?
«Definitivamente contro, il calcio deve essere più della gente, i proprietari dovrebbero essere i tifosi. Fa impressione sapere che qualcuno che ti pulisce il culo all’ospedale guadagni 1600 euro e chi dà un calcio al pallone 70 milioni. E te lo dice uno che guadagna benissimo per scaldare quattro padelle».
Ma in finale chi hai tifato: Italia o Inghilterra?
«La Plaxy era combattuta. E io le ho detto: ma perché? Tu hai già vinto chiunque sia il vincitore, sei contenta in entrambi i casi».
Però non hai risposto...
«Be' diciamo che la vittoria dell'Italia mi ha reso molto più felice, però non gliel'ho detto a mia moglie..».
Sempre sport ma moto: Valentino si deve ritirare?
«Tutti quelli che dicono che si dovrebbe ritirare dovrebbero fare un giro in circuito con la moto e capire cosa vuol dire prendere un secondo da quei giovani che vanno davvero forte. Ti rendi conto? Solo un secondo e da primo sei tredicesimo. Il paddock, con lui dentro, è un paddock migliore».
Lui abitava a Londra…
«Quando stava a St. James veniva spesso a mangiare da me. Ha sempre avuto la sua privacy, solo una volta entrò in cucina perché era il compleanno di uno dei ragazzi. Era il momento in cui se le dava con Gibernau, e scherzò anche con i catalani».
Nel frattempo ci servono il primo, l’ultima portata per restare leggeri: spaghetti al riccio di mare con gel di testina di vitello brasati alla base e spuma di cioccolato. L’impiattamento è di impatto. Locatelli commenta: «Mangiamolo subito perché va mangiato caldo».
Dicono di te. Cannavacciuolo: «Sei l’amico che avrebbe sempre voluto».
«Con Antonino non c’è bullshit, dice sempre quello che pensa. Ne ho conosciute tante di persone in cinquant’anni, ma sono davvero poche quelle che dicono davvero ciò che pensano. Lui è una di queste e io per questo, di lui, ho molto rispetto. Poi è un grande cuoco, ed è magnanimo, un buono».
Gordon Ramsay: «Non sfidate Giorgio Locatelli».
«Io e lui abbiamo sempre litigato, abbiamo sempre avuto un differente punto di vista. Abbiamo lavorato nella stessa compagnia, proprietaria dei rispettivi ristoranti in cui cucinavamo. Era una persona driven (dominante), se avesse dovuto buttare sua mamma dalla finestra l’avrebbe buttata. Dal punto di vista culinario collaboravamo anche, avevamo idee diverse anche per mandare avanti quello che stavamo facendo. Ma tra di noi c’è stato sin da subito un immenso rispetto».
Dimmi la verità: dopo essere diventato famoso, per uno chef è difficile tornare solo a cucinare?
«No, l’identità è già formata. La televisione viene dopo, chi ci arriva si è fatta il culo; il problema è con i ragazzi che escono da Masterchef e vengono già considerati chef. Vengono da un social status che è più grande di loro».
Tre cose che ti hanno formato.
«L’onestà sicuramente, un po’ di umiltà che ci vuole sempre. E lo spirito di avventura, mi interessa avere una challenge».
Chiudi gli occhi, il primo sapore che ti viene in mente?
«Gli gnocchi».
Qual è il periodo storico in cui avresti voluto vivere?
«Rinascimento Italiano».
Gioco della torre. Chi butti tra Cracco e Canavacciuolo?
«Ho grande ammirazione per Cracco, ma tra i due sicuramente lui».
Barbieri o Borghese?
«È più facile Bruno, perché è meno pesante. A parte gli scherzi Barbieri è un gran professionista, un grande achiever, sarà interessante vedere cosa farà in futuro. Borghese poi non potrei proprio se no chi la sente mia madre: è innamorata del suo programma, me lo racconta tutte le sere».
Boris Johnson o Trump?
«Aaah. Tutti e due, forse di più Trump».
Mourinho o Guardiola?
«Non lo sopporto Guardiola, I hate Guardiola da quando era al Barcellona».
Preferisci fare l’amore o mangiare?
«Fare l’amore».
Ultima cosa che pensi prima di addormentarti?
«Penso se sono comodo o se mi fa male la spalla. Certe sere vado a letto tardi, certe volte faccio sogni terribili. L’altra sera per esempio: c’era una diga e io ero con mia moglie e il cane, lui salta dentro il geyser e sparisce. Mia moglie mi diceva di fare qualcosa, e io le dicevo cosa faccio? Ero disperato».
Sei bravo a letto?
«Mamma mia. Se c’era mio padre ti avrebbe dato un cazzotto in testa… Non sta a me giudicare».
Ultima volta che hai fatto l’amore?
«Prima di partire».
Quanto hai in banca?
«Mi sono accorto di avere davvero tanti conti, non lo sapevo. I soldi non sono mai stati una grande cosa per me, sono sempre stato bravo ad amministrarli. Anche mia moglie me lo dice».
Finisci questa frase: Quando sarò vecchio…
«Racconterò un sacco di balle ai nipoti, di quelle balle stratosferiche».
Come vorresti morire?
«La mattina, dopo colazione. Così, tranquillamente».
Ultimo piatto che vorresti mangiare?
«Le uova, con un po’ di pane. È triste morire il pomeriggio o la sera. Invece la mattina… Bevi il tuo caffè e poi bye bye».
Sulla lapide cosa ci scriviamo?
«Giorgio Locatelli, ve l’ho detto che non stavo bene».
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