Challenger di Monza, primo pomeriggio, Jacopo Berrettini ha un’ora e mezza prenotata sul campo sette. Prima 70 minuti di allenamento: palline gialle colpite come se fossero virus infettanti da respingere il più lontano possibile, la respirazione simile a quella di un pugile al sacco da boxe. Poi la formula magica per inaugurare l’ultimo spezzone di gioco: “Venti punti a testa, partendo dal servizio, e se ne annamo a casa?”. Francesco Maestrelli, pisano, numero 298 del ranking, dall’altra parte della rete accetta. Accetta le provocazioni di Jacopo, che quando fa ace gli dice “e questa è bella eh”, che quando vince uno scambio prolungato ribadisce come il cacciucco alla livornese sia il più buono al mondo. Alla fine i bambini si raggruppano lì, sul sette, e non sui campi dove si svolgono i match ufficiali. È più divertente il tennis di Jacopo e Francesco, talmente vicini in classifica da poter essere considerati rivali, talmente amici che non si prenderanno mai troppo sul serio.

Jacopo ad un certo punto si gira verso il suo preparatore atletico: “Quanto sta Matteo?”. Matteo Berrettini è sul Centrale di Montecarlo e sta sotto di un set contro Sascha Zverev. Passano quaranta minuti, tempo di fare stretching-fisioterapia-doccia, che Matteo si trova sopra di un break nel terzo. Jacopo esce dagli spogliatoi e, quasi scusandosi, mi chiede di aspettare la fine del match del fratello. Si infila nella players’ lounge - una saletta tra gli spogliatoi e il bar munita di divani, libreria, cyclette e maxischermo – ed emerge mezz’ora più tardi col viso finalmente disteso. “Quando riesco lo guardo in televisione ovviamente, altrimenti cerco di evitare il live score dal telefono, troppo tosta” – confessa. Ci sediamo all’aperto: alle sue spalle gli alberi della Villa Reale che esalano primavera nell’aria, una settimana a Barletta, un febbraio di tornei in India, ancor più indietro un 2024 di soddisfazioni sportive raccolte in ogni angolo del globo. Davanti a sé Jacopo vede il Challenger di casa, a Roma, poi gli allenamenti a Foligno e l’indecisione se giocare ad Ostrava o a Mauthausen. Più di tutte queste cose, Jacopo Berrettini vorrebbe continuare a sentirsi bene, mentre incastra lavoro, affetti, preoccupazioni e una racchetta dentro lo zaino, che porta sempre in spalla.
Hai detto che l’obiettivo per il 2025 sarà continuare a prendere in mano la tua vita. Cosa intendi, quanto c’entra il tennis?
“C’entra sempre il tennis, perché è comunque il mio lavoro, gran parte delle mie energie vengono destinate al tennis. Prendere in mano la mia vita vuol dire prendere decisioni per me, scegliere io in base a ciò che mi fa stare bene, portare tutto quello che faccio verso la mia parte, non fare cose per qualcun altro, ma solo per me stesso”.
In cosa il circuito Challenger è più stressante di quello maggiore?
“Secondo me ci sono degli aspetti che rendono la vita un pochino più stressante, perché sei più sotto ai riflettori rispetto ai Futures e non hai i comfort dell’ATP. Più sali di livello, più hai delle comodità che ti permettono di percepire meno certe fatiche. Ma anche coi benefit dell’ATP, i viaggi sono sempre viaggi e gli allenamenti sempre allenamenti. Credo che a qualsiasi livello questa vita sia abbastanza stressante”.
Riesci a viaggiare davvero a volte, a goderti alcune destinazioni nei momenti in cui non sei in campo?
“Sì, ci ho provato, ultimamente ci sto provando di più. Dipende sempre da come va il torneo, perché se vai avanti è difficile prenderti tempo per visitare la città. In India non ho giocato tantissimo e ho avuto modo di girare un po’. Ad esempio non ero mai stato qui a Monza e mi è piaciuta tantissimo, non mi aspettavo fosse una realtà così particolare. Credo che questo sia sicuramente l’aspetto più bello del lavoro che facciamo”.
Il posto più affascinante in cui sei stato per giocare a tennis?
“Direi Acapulco. Giochi accanto all’Oceano e hai la camera dell’hotel affacciata sulla spiaggia (ride). Un pochino me l’aspettavo, ma mi è rimasto comunque impresso”.
Il più brutto?
“Una volta sono andato in Tunisia, a Tabarka. Ero in un resort che non era davvero un resort. Posto sporco, si mangiava male, i campi erano gestiti male, tutto male”.

Hai visto Challengers, il film?
“Sì!”
Ti è piaciuto?
“Non mi è dispiaciuto, la parte tennistica è difficile riprodurla, perché o prendi due giocatori professionisti che sanno giocare, oppure fai fatica. Però la storia l’ho trovata interessante. Diciamo che, a parte alcuni aspetti della storia d’amore, le dinamiche che i protagonisti vivono in campo ci stanno, ti ci puoi ritrovare”.
Ti è capitato di vedere tennisti che dormono in macchina?
“Ci sono persone che l’hanno fatto, le ho viste, non dico chi sono, ma adesso si trovano ad un livello molto alto. Per fortuna si tratta di circostanze rare”.
Qui a Monza hai assistito ai match di Federico Cinà e Jacopo Vasamì, entrambi classe 2007. Gli dai consigli, essendo più grande?
“No, consigli non mi permetterei mai, a meno che loro non me li chiedano. In quel caso mi fa piacere. Vasamì l’ho conosciuto a Barletta, mi sembra un bravo ragazzo, che sa quello che vuole, e conosco molto bene il suo allenatore, Fabrizio Zeppieri. Cinà ancora non lo conosco bene, è una persona che stimo, mi sembra molto educato”.

Se avessi fatto il calciatore che ruolo avresti fatto?
“Difensore, sicuro”.
A 13 anni ti era venuto il dubbio.
“Sì, quello era stato il momento più complicato. A scuola trovi amici che ti invogliano a fare altro, intanto sul campo da tennis magari non va benissimo e tendi a scappare dalle difficoltà. Di calcio sono tutt’ora malato (ride, è tifoso della Fiorentina, ndr) e in quel momento avevo avuto qualche tentennamento”.
Passa un signore: “Tuo fratello ha vinto eh, ci ha fatto soffrire”.
Jacopo sorride e replica: “Mamma mia davvero”.
C’è un piatto specifico che desidereresti mangiare quando sei dall’altra parte del mondo?
“Ho fatto l’abitudine a mangiare tante cose diverse, poi quando sei ai tornei non mangi cose particolarmente sfiziose, cerchi sempre di stare molto leggero. La cosa che mi manca di più è sentirmi a casa”.
Nostalgia di qualche angolo di Roma?
Jacopo ci pensa bene: “Mahhh…”
Poi si convince: “No, direi proprio casa mia. La mia famiglia, la mia ragazza, la situazione che ho lì. Sono affezionato a Roma come a nient’altro, mi manca avere la routine di casa mia a volte”.

Non si parla mai abbastanza delle difficoltà che devono affrontare i tennisti fuori dai primi 150 al mondo. Sei ancora preoccupato per le prospettive economiche del tuo lavoro?
“Sì, è sicuramente un pensiero. Ora, giocando più Challengers e meno Futures, va un po’ meglio. Però è sempre qualcosa a cui penso, perché ho 27 anni e non 18. Più andrò avanti e più ci penserò, se resto a questo livello”.
C’è qualche dinamica che trovi ingiusta?
“Ingiusta no, dai. Rispetto ad altri sport le spese sono molto ingenti e molto più a carico dell’atleta, ma è sempre stato il meccanismo del tennis. Credo si stia facendo un buon lavoro per incrementare il prize money dei Challengers, sicuramente ora ci sono più soldi e più benefit rispetto al passato. Poi è uno sport democratico, chi avanza guadagna. Questa mi pare sia una cosa giusta”.
A Napoli sei stato disturbato da spettatori che tifano sguaiatamente a seconda di come scommettono. Questo fenomeno è così intenso anche all’estero?
“C’è, dipende da dove vai, ma c’è sempre. Da una parte è bello, perché quando fanno il tifo per te ti gasa, e poi perché è il segno che sempre più persone cominciano a seguire il tennis. Dall’altra servirebbe un cambiamento culturale, molta gente dovrebbe fare più attenzione ai propri comportamenti”.

Il miglior consiglio che hai dato a Matteo?
“Credo sia stato quando lui stava traballando come persona, nei momenti in cui lui faticava in campo e soprattutto fuori, in cui non riusciva a stare bene con sé stesso. Matteo ha grandi valori, ma alcune volte tende a sminuirsi, è molto sensibile. Tende ad avere dubbi sulla persona che è, non sul professionista. Io cerco di ricordargli quali sono i suoi pregi, e sono tanti”.
Quello che lui a dato a te?
“Me ne ha dati molti. Credo che ora mi stia aiutando molto a reagire bene alle sconfitte, in un modo che mi possa far crescere sempre di più. È una cosa su cui ho tanto da imparare e su cui lui mi sta dando una grossa mano”.
Chi è più simpatico?
Jacopo non ci pensa: “Ovviamente io, ovviamente (ride, ndr)”.
Riti pre-partita?
“La colazione la faccio sempre allo stesso modo, dal primo all’ultimo giorno di un torneo”.
Ad esempio?
“Uova, pane e marmellata, crostata e yogurt”.
E se va bene non cambi.
“Non cambio nulla, esatto. Poi ci sono altre cose, che in passato si erano trasformate in fobie. Da piccolo a volte esageravo con questi riti, poi piano piano ho imparato a gestirli. Adesso ho una routine non maniacale che mi permette di entrare in campo concentrato”.
Ascolti musica prima di giocare?
“Sì, mi piace molto”.
Playlist?
“Musica tranquilla, tanto indie, tanto Ultimo. Ma poi vado anche indietro e ascolto Zucchero, Ligabue. Se mi serve energia magari metto qualcosa di ballabile, ma prima di giocare cerco di non ballare (ride)”.
