La notizia è arrivata così, di colpo, come una nota lunga che si interrompe di colpo a metà battuta: Peppe Vessicchio non c’è più. E tutti, improvvisamente, ci siamo accorti che nella nostra colonna sonora quotidiana c’era lui, sempre. Non serve nemmeno nominarlo per intero — “Vessicchio” basta e avanza, come “Mozart” o “Totò”. In Italia, dire “Vessicchio” è dire “musica”, “ironia”, “ordine armonico nell’universo”, Non puoi dire neanche “barba”, senza pensare a Vessicchio. Quella barba da profeta stanco che entra in scena al Festival di Sanremo. Non serve che diriga, basta che ci sia. Vessicchio era una liturgia, come i ritornelli che girano sempre sulle stesse note, come Montalbano che fa sempre le stesse cose, come le strutture dei romanzi di Simenon sempre uguali. Sono cose che rassicurano. Ecco, se una colpa devo dare a Vessicchio è l’essere stato rassicurante. Quanto mi sarebbe piaciuto vederlo, in punto di morte, urlare: “Sanremo fa schifo, i testi fanno schifo, fate schifo tutti” e poi tirare fuori una chitarra elettrica, spedalare sui distorsori e pettinarli tutti. È l’unico direttore d’orchestra che abbia mai avuto lo stesso indice di popolarità di un cantante pop. Forse più. Perché nel momento in cui appariva, tutto tornava a posto. Anche le canzoni peggiori sembravano meno peggiori. Persino le stonature diventavano filosofiche: sul palco di Sanremo la stonatura diventava verità, se c’era Vessicchio a dirigere.
Un ragazzo di Bagnoli, con il padre che lavorava all’Eternit e muore d’amianto — la musica, per lui, diventa un modo per non morire anche lui soffocato. Architetto mancato, arrangiatore autodidatta, debutta scrivendo per Arbore e cantando “Siamo meridionali” con la stessa ironia con cui, quarant’anni dopo, avrebbe diretto l’orchestra con la mano sinistra, mentre con la destra salutava il pubblico, i piccoli gesti di un grande Maestro. Diceva sempre che “la musica è come la matematica, ma con più anima”. Il che è sbagliato, perché anche l’anima è matematica, ma glielo perdoniamo: Vessicchio era nazional-popolare, qualche sbavatura retorica ci sta.
Sanremo: venti edizioni. Sempre preciso, sempre composto. Ed è per questo che, quando usciva dagli schemi del rito sanremese, diventava subito notizia: una battuta sarcastica di Vessicchio era più potente di Ozzy che addenta un pipistrello. E infatti l’ho sperato per una vita, che Vessicchio mangiasse la testa di un rettile sul palco di Sanremo insanguinandosi la barba candida. Secondo me ci sarebbe stata una hola di squi*ting. Raccontava che la prima volta che lo chiamarono sul palco gli tremavano le mani. Poi salì, guardò l’orchestra, sorrise e disse: “Tranquilli, non siamo qui per sopravvivere. Siamo qui per suonare”. E ha continuato a farlo poi per sempre, anche quando non c’era. Vessicchio era come la filosofia “Ma”, quella che il vuoto è tanto importante quanto il pieno: Sanremo si divide in due parti; con Vessicchio e senza Vessicchio. Da oggi Sanremo sarà diviso in A.V e P.V, ante Vessicchio e Post Vessicchio.
Per lui il suono era un atto morale. Anche quando si trovava davanti a canzoni orrende, le dirigeva con la stessa compostezza con cui un chirurgo salva una gamba. Come se pensasse che questo era l’umano e che con questo, purtroppo, si doveva avere a che fare. Vessicchio era un Nietzsche compassionevole, un superuomo accomodante.
E poi c’erano le donne. Tutte donne, nella sua vita: moglie, figlia, nipoti, bisnipoti. Diceva che per loro avrebbe anche tagliato la barba — e già questo bastava per far capire quanto le amasse. Era un patriarca ironico, forse l’unico, in Italia, che permette l’uso della parola “patriarca” senza provocare una rivolta femminista.Aveva una devozione segreta: la musica come cura. Lavorava con la Lega del Filo d’Oro per i bambini sordociechi, e diceva che “lì la musica diventa una cosa assoluta”. Ed è vero. Dirigeva non solo gli strumenti, ma la presenza. Non il suono, ma il senso.
Ora che se n’è andato, rimane quell’immagine lì: Peppe Vessicchio che sale sul podio, sistema il leggio, sorride, alza la bacchetta e con un gesto mette in ordine il mondo. E l’espressione della barba che dice: so tutto, so della sofferenza e so della morte, so della delusione, so dei sogni infranti, so dei fallimenti e delle rivincite, che non durano mai tanto quanto si vorrebbe. So dei deliri di onnipotenza e della celebrità che è un attimo stupido. So della vita e so della morte. Ed è per questo, che sorrido come la Monna Lisa.
Immagino Dio, in questo momento, intrufolarsi con un flauto in mano nell’orchestra, per avere il piacere, anche lui, di essere diretto, per una volta, dal Maestro Veppe Vessicchio.