“Knives Out: Wake Up Dead Man” rappresenta il culmine della trilogia di Rian Johnson, con Daniel Craig magistrale nei panni di Benoit Blanc in un'indagine intricata oltre ogni immaginazione. Aggiungendo, oltre alla consueta critica sociale, anche quella politica (“Trovare un nemico comune e far credere loro che distruggerà tutto ciò che amano”, sembra il manifesto di ogni partito politico contemporaneo), elevando il genere whodunit (difficilissimo, in questo caso, capire chi è stato) a nuovi livelli di raffinatezza gotica.
Il cast è stellare. Josh Brolin, con capelli lunghi, barba e abito talare, sembra uscito fuori da una Matrix religiosa. Spalle larghe, voce profonda e modulata, occhi infuocati che tradiscono ambizioni terrene. Daniel Craig è un Benoit Blanc più maturo, autoironico, quasi in disparte rispetto agli altri, trasmette una costante sensazione di disincanto che esploderà su una via di Damasco finale. Glenn Close brilla come Martha Delacroix, matriarca manipolatrice e affascinante, con uno sguardo che trasuda potere e segreti inconfessabili.
Completano l'ensemble Mila Kunis (Geraldine Scott, energica e imprevedibile), Jeremy Renner (Dr. Nat Sharp, cinico e affascinante e marcito), Kerry Washington (Vera Draven, elegante e tagliente), Andrew Scott (Lee Ross, nevrotico e brillante), Cailee Spaeny (Simone Vivane, ribelle e vulnerabile), Daryl McCormack (Cy Draven, ridicolo e influencer ma con ambizioni da dittatorello) e Thsomas Haden Church (Samson Holt, burbero e imponente), con Jeffrey Wright come Langstrom a legare i fili narrativi.
Rispetto al primo, più intimo e whodunit puro, e al secondo, volutamente caricaturale, questo capitolo torna alle radici oscure del genere, con un Blanc più maturo e un ensemble meno stereotipato. È come se attraverso il crimedy o il whodunit si fosse scelto stavolta di dirci di più, oltre a offrirci uno splendido e riuscitissimo intrattenimento.
La regia di Johnson crea un'atmosfera gotica mozzafiato: nebbie avvolgenti, candele tremolanti e architetture religiose opprimenti amplificano la paranoia. I dialoghi scintillano di umorismo secco, con Blanc che, sulla stessa scia di Brolin, ma volto al bene, scopre le ipocrisie del perbenismo cattolico. Rispetto ai predecessori, eccelle nel bilanciare dramma e intrattenimento, culminando in un mystery che onora Christie mentre innova.
Resta un retrogusto quasi di incompiuta, come se l’obiettivo del film fosse stato sfiorato e non centrato a causa delle, comunque imperanti, regole commerciali di questo prodotto che, comunque, è seriale. Ma glielo si perdona volentieri: spingere l’acceleratore sul registro più profondo probabilmente avrebbe allontanato quegli spettatori guardoni da “adesso lo risolvo io il mistero” che si approcciano al “giallo” così come si approcciano, per esempio, a Garlasco. Se “Only Murders in the Building” è la definitiva presa in giro del true crime, qui siamo di fronte a un’operazione più raffinata: prendere il delitto della camera chiusa e dirci che, se non troviamo l’assassino, è perché la nostra società sta commettendo il crimine perfetto.