Piero Chiambretti è un pilastro della tv italiana. Che risulti simpatico o no (e quando lo si conosce di persona, spesso lo risulta) da oltre 30 anni è uno dei grandi protagonisti del piccolo schermo, grazie a un azzeccato mix di improvvisazione, velocità esecutiva, il gusto per il grottesco, lo sberleffo, ma anche una certa orgogliosa rivendicazione del pop, della provincia e dei freaks (soprattutto nella prima parte della sua carriera). Il suo stile televisivo spontaneo, imprevedibile ma anche articolato e dotato di una certa poesia, mi colpì come una sassata nel 1989: ho 14 anni, non sono sportivo, ho pochi amici, sto spesso a casa e scanalando mi imbatto nel segmento del “divano in piazza” nel programma “Va Pensiero” su Rai 3. A Chiambretti viene dato il collegamento da una piazza di una città italiana ma non ha ospiti e allora, per scongiurare il licenziamento, recluta un ignaro passante chiedendogli di “tenere il bordone” facendolo accomodare sul divano del titolo: Chiambretti dichiarerà ai conduttori in studio di essere in compagnia del “fratello di Rambo”, della “mamma di Gorbaciov”, della “moglie di Gheddafi” quando in realtà si tratta di un tabaccaio di Rieti, una casalinga di Rivoli o una cassiera di Prato… leggendario.
Per buona parte degli anni ’80 e fino ai primissimi ’90 è il principale alfiere di una televisione di strada anni luce prima de Le Iene, una televisione all’arrembaggio in cui Piero dissacra usi, costumi e liturgie di una tv che prima di lui sembrava rigida e bolsa come una giacca doppiopetto di Mike Bongiorno (proprio Chiambretti vorrà Mike al suo fianco assieme a Valeriona Marini per condurre un’indimenticabile edizione del Festival di Sanremo nel 1997). Con gli anni il suo stile diventa raffinato, Chiambretti diventa stanziale e inizia a costruire in studio, programma dopo programma, il suo personale universo fatto di citazioni cinematografiche, pop, illusioni ottiche e iconografia kitsch. Aumenta la caratura dei suoi ospiti ma anche le critiche: per alcuni si è imborghesito, si è montato la testa. In ogni caso, la portata delle sue idee nella storia del mezzo televisivo italiano è indiscutibile.
Ho lavorato come autore nei suoi programmi dal 2006 al 2012. Per me, come per tanti miei colleghi e amici Piero è stato un maestro, un po’ come Miyagi per Daniel LaRusso ma pure come John Kreese per Johnny Lawrence in The Karate Kid: paterno e saggio ma anche inflessibile e a tratti pestifero.
A marzo 2020 leggo della positività al Covid sua e della mamma Felicita, alla quale è legatissimo e che ha la stessa età di mio padre: anche lui è positivo, anche io sono legatissimo a lui. Ci scambiamo quindi dei messaggi di reciproca speranza e conforto. Il 21 marzo Felicita si spegne in un ospedale di Torino, il 30 marzo mio padre in uno di Milano. Queste tragedie ci avvicinano. Ci scambiamo delle telefonate che assomigliano a un gruppo di auto aiuto (anche se siamo in due). Piero mi dice che “non ho la forza di tornare in tv, non ce la faccio”.
Pochi mesi dopo viene annunciato che il late night show calcistico Tiki Taka ha un nuovo conduttore: lui. Sono sorpreso, quasi scioccato dallo scoprire che, a così poco tempo da un grave lutto, Piero è già al timone di un nuovo programma. A questo punto devo assolutamente incontrarlo: per salutarlo, per sapere come sta, per parlare di tv, per capire come ha lavorato alla propria resurrezione e capire se può darmi degli spunti per lavorare alla mia. Ci incontriamo a pranzo a Torino (ovviamente) in uno dei suoi locali, lo Sfashion Cafè ovvero la sua personalissima interpretazione di un locale cool di Milano, se Milano fosse un film dei Monty Python scenografato da Fellini.
Se dovessimo fare una bolla per tutte le squadre di A, B e C dovremmo spedire tutti i giocatori su Marte, compreso Conte. Anzi, i Conte
Iniziamo dalla fine: Tiki Taka.
Questo è un momento molto particolare perché si uniscono l’utile e il dilettevole. L’utile perché lavorando non penso ai fatti miei, mi allontano dai miei pensieri molto più seri e profondi. Dilettevole perché questa trasmissione è difficile, come poi lo sono tutte le trasmissioni, perchè ha due anime: la prima è quella sportiva, quella tipica della divisione sportiva di Mediaset, un esercito monolitico consolidato da anni di campionati e coppe. Il vuoto pneumatico creato da Aldo Biscardi, che rimane l’unico vero grande imperatore del calcio parlato sotto forma di spettacolo superiore quasi a quello giocato, non è stato più riempito. In 40 anni non è stata secondo me ancora trovata un’alternativa valida al Processo del Lunedì. L’altra anima è quella dell’identità che porto con me… quella che qualcuno chiama “Chiambrettismo”.
E lei Piero come la chiamerebbe?
La cosa che penso di poter rappresentare meglio è quella della voce fuori dal coro. Fino a un certo punto della mia vita ho cercato di fare sempre quello che non si deve fare. Poi, quando questo è diventato quasi impossibile, per via del regime, diciamo “mentale” dei grandi referenti televisivi, ho cercato di fare meglio quello che c’era. Tiki Taka è un progetto che mi è caduto in testa come una manna. Oggi, a distanza di qualche puntata, mi sono reso conto che, a dispetto dell’iniziale scetticismo - mio e della popolazione calcistica - il connubio Calcio & Chiambretti può sicuramente avere un piccolo futuro televisivo. Ma la strada è lunga. Spero che il programma possa diventare nel tempo un racconto sulla settimana sportiva e non solo un chiacchiericcio sulla singola partita o sull’episodio eclatante… anche perché di episodi eclatanti non se ne vedono quasi mai: le partite sono sempre meno; il campionato del pallone è stato sostituito dal campionato del tampone; il Covid non permette di giocare con le formazioni titolari e il pubblico non può neanche partecipare. Si era parlato di fare una “bolla” sicura, come per i playoff dell’NBA: peccato che lì le squadre siano poche. Se dovessimo fare una bolla per tutte le squadre di A, B e C dovremmo costruire una città su un altro pianeta, tipo Marte, e spedire tutti i giocatori lì. Lasciarli su Marte a giocare in sicurezza e salute, compreso Conte.
Quando parla di Conte intende il Premier o l’allenatore?
Per “Conte” va bene tutto.
Tiki Taka non è la sua prima sortita nel mondo del calcio: nel 1989 condusse per la Rai “Prove Tecniche di Trasmissione”…
Si! Ogni domenica contro una Domenica In su Rai Uno fortissima (conduceva Edwige Fenech) noi su Rai 3 facevamo un programma contenitore in un tendone da circo montato a pochi metri dallo stadio dove si era disputata la partita più importante della giornata. L’ultimo quarto d’ora era tutto calcistico: lasciavo il regista, Nanni Loy, nel tendone e scappavo allo stadio ormai deserto dove mi ricollegavo con lui e facevo una moviola a modo mio imitando i goal o le azioni salienti della partita. Il tutto davanti alle tifoserie delle squadre, che sapevano che sarei arrivato e restavano li a gridare “GOAL!” quando mimavo la rete.
Le tifoserie quindi amavano questo esperimento “metasportivo”. Ma il pubblico? A me sembra che in materia calcistica in genere in Italia siamo un filo tradizionalisti.
L’abbiamo già detto no? Il pubblico, anche se intelligente, in tv si pensa che scelga cosa guardare. Invece il pubblico non sceglie, subisce. Quindi se subisce una cosa di merda pensa di aver scelto una cosa di merda, se invece subisce una cosa di qualità pensa di aver scelto la qualità. E il confine tra merda e qualità è molto labile oggi perché ora la tv preferisce costruire dal basso anziché dall’alto. Quindi anche se fai qualcosa di qualità oggi incontri difficoltà. Quando uno è abituato a mangiare sempre junk food se gli presenti un piatto stellato te lo tira in faccia. Io non amo i ristoranti stellati ma era un esempio calzante. Tornando a Tiki Taka durante le prime tre puntate ci siamo interrogati su questo: Il pubblico lo capirà o ce lo sbatterà in faccia? E secondo me l’esame è stato superato perchè il pubblico è aumentato. Noi dobbiamo sempre tener conto del pubblico ma anche delle idee: se le idee sono buone, bisogna difenderle. Se il programma avrà successo avremo dimostrato a noi stessi e agli altri colleghi che quello che vuole il pubblico è quello che vogliamo noi.
Lei stesso non è forse anche pubblico?
Certo. Il pubblico siamo noi. E il pubblico sceglie quello che noi proponiamo. Quindi se tutti insieme proponessimo cose migliori, il livello si alzerebbe. E comunque la tv che faccio, su Mediaset, è gratuita, non mi sembra il caso di pretendere troppo.
Ecco, parlando di tv gratuita penso a quella che non lo è, alle piattaforme di streaming video. Che succederà alla tv?
La tv non morirà mai. E’ come il boiler. Uno può aggiornarlo, modernizzarlo, ma avrà sempre bisogno di lavarsi le mani. E’ un elettrodomestico. Un tempo la tv era il caminetto elettronico del salotto, poi si è spostata in cucina, poi in camera da letto e oggi - l’ho visto in una foto di Diego Abatantuono - in bagno. La tv non è più “centrale” ma c’è sempre. Prima c’era solo la tv, ora ci sono anche altri sistemi. Ma non è che arrivati quelli la tv muore. Si è solo riposizionata. Ci sono poi casi in cui la tv è ancora vincente rispetto a queste piattaforme: il grande evento, la grande partita, il grande festival te li vuoi vedere in tv. I famosi “giovani scappano dalla tv” li trovi puoi tutti li davanti, che commentano quello che guardano su Twitter. Diciamo che però i soldi sono meno e i rischi sono di più, quindi non si sperimenta più… c’è la paura. La tv non è morta ma è diventata paurosa. Ma basta!!! Questi piccioni sono tipo Kamikaze!!!
Siamo seduti a un tavolo all’aperto in Piazza Carlo Alberto e, in una specie di remake sabaudo di Uccelli di Hitchcock, una quantità crescente di piccioni si sta avventando sul nostro tavolo a caccia di avanzi.
Io ero convinto avrebbe voluto sedersi all’interno del locale, lontano da sguardi indiscreti.
No no, io amo stare in mezzo alla gente. Io ho cominciato facendo programmi solo con “real people”, come sul divano in piazza del 1989. Poi un giorno qualcuno scrisse “è troppo facile farlo con persone semplici, coi disgraziati”. Da quel giorno decisi che avrei solo intervistato numeri uno.
Bonolis continua invece…
Lui lo fa benissimo, forse in modo un po’ più violento… a me piaceva una certa ingenuità nelle persone, certe intuizioni naif. Un tempo dicevi “arrivava la televisione” e sembrava arrivasse l’esercito. Oggi che te la fai a casa non fa più nessun effetto.
Parlando degli inizi, lei ha praticamente sempre fatto programmi itineranti, è stato anche un precursore de Le Iene.
A me piaceva stare per la strada, perchè le scenografie che la realtà di offre saranno sempre meglio di qualunque ricostruzione in studio, come Fellini quando ricostruì la strada a Cinecittà. Poi, quando per strada hanno incominciato ad andarci tutti, mi sono barricato in studio e ho cercato di ricostruire la mia versione della realtà, una realtà che superasse se stessa.
La Tv non morirà mai. È come il boiler. Uno può aggiornarlo, modernizzarlo, ma avrà sempre bisogno di lavarsi le mani. È un elettrodomestico
Si ricorda di quando a Chiambretti Night venne Terry Gilliam? A un certo punto mi si avvicinò dicendomi “I love this show, it’s like Fellini!”.
Certo che mi ricordo! Ma tutti gli americani, quando venivano da noi, per fare un complimento dicevano “Fellini!”. Perchè in quel programma c’era un’attenzione maniacale ad ogni piccolo dettaglio: il pavimento, il quadro, il nano gigante… tutto era un’idea.
Verissimo. Ma perchè Piero, mi chiedo adesso, sbattersi così, perdere ore e ore su dettagli che nessuno a casa avrebbe notato?
C’era un passaggio in una biografia di Luchino Visconti che mi colpì tantissimo. Negli armadi, sui tavoli dei set dei suoi film in costume lui pretendeva che ci fossero veri abiti, vere tovaglie e stoviglie del ‘700, dell’800. Nessuno spettatore le avrebbe mai potute vedere, delle imitazioni sarebbero andate benissimo. Ma Visconti voleva solo cose originali d’epoca per “dare importanza al gesto”, conferire realismo. Ecco, io penso che ai grandi maestri non ci si debba ispirare, penso che si debbano proprio copiare. Quindi copiai a modo mio il suoi set in tv, perchè la tv cos’è se non un cinema malriuscito?
Piero, lei è sensibile alle critiche (televisive)?
All’inizio della carriera siamo tutti fragili: una riga mi poteva far finire sotto un treno. Oggi no, non leggo quasi più niente che mi riguarda, solo le critiche che mi divertono molto. Però sono un pò deluso perchè di critiche a Tiki Taka ne sono arrivate troppo poche. Invito tutti quindi a scrivere male di me!
Un cosa abbastanza singolare è che lei nella prima metà della sua carriera non ha mai condotto lo stesso programma per più di uno due anni.
Si, e me ne sono un pò pentito con l’età. Ogni anno per otto anni a Rai 3, dopo il Festival del Cinema di Venezia, avevo un appuntamento fisso con il direttore Guglielmi in cui dovevo proporgli un programma totalmente nuovo rispetto a quello di pochi mesi prima, che peraltro andava benissimo come ascolti. In quel periodo la rete spingeva per fare cose mai viste, io avevo un’energia incredibile e quindi ogni anno reinventavamo tutto. Poi finì: Guglielmi andò via e io passai a Rai 2 e poi andai a LA7.
Perchè la mandarono via dalla Rai, dopo tutti quei successi innovativi?
Non l’ho mai capito. Ho provato anche a fare un’indagine interna ma niente. La gente appena facevano il mio nome scappava. Probabilmente fu un veto politico, senza che io avessi detto peraltro nulla di sconvolgente sui politici di allora. Non ho mai nascosto di essere a sinistra, anche se sono anni che non voto perchè non mi sento rappresentato, e finché ero a Rai Tre a loro andava bene. Ma non sono mai stato ortodosso: se qualcosa “di destra” funzionava, la mettevo in uno dei miei programmi.
Lei per tutti gli anni ’80 è sempre stato un uomo Rai, ma la prima volta in vita mia che la vidi fu a Quo Vadiz? il primo varietà-collossal prodotto da una televisione privata (la Rete 4 appena acquistata da Silvio Berlusconi), ideato dai registi Gabriele Salvatores e Maurizio Nichetti, quest’ultimo anche conduttore. Lei appare in un breve segmento in cui intervista un piromane e parla del suo segmento come del “Piero Chiambretti Show” anche se dura pochi minuti.
La vita spesso è una combinazione di eventi fortuiti. Un mio socio viene chiamato a Mediaset per fare un colloquio e mi chiede di accompagnarlo. Ad accoglierci a Publitalia arriva un giovanissimo allora (hanno la stessa età, nda) Urbano Cairo, che era già un grande capo e ci infila nel programma di Nichetti. Diciamo la verità, quel segmento non era granché ma Berlusconi dice a Nichetti “tieni Chiambretti, fagli fare qualcosa”. Allora io gli propongo l’idea del Divano in Piazza. Faccio una prova davanti a tre professori: Maurizio Nichetti, Gabriele Salvatores e Paolo Rossi. Restano sconvolti. Ma poi prima di mandarlo in onda lo alterano in montaggio dandogli quasi un sapore di finzione e va male. Nessuno se ne ricorda, tanto che qualche anno dopo lo proporrò a Rai Tre, stavolta col mio montaggio, e sarà la svolta della mia carriera. Parlando di carriere…
A questo punto Piero si rivolge alla fotografa Carolina Lopez Bohorquez, che fino ad ora è rimasta seduta con noi, impassibile e signorile anche di fronte agli attacchi dei piccioni, e indica me… "vede, lui è come un figlioccio per me, a lui e a qualche altro ragazzo sono molto affezionato. Solo che poi quando prendono la loro strada, separandosi dalla mia, fanno solo degli errori… e quindi dispiace vedere una qualità, un talento che si disperde nel vuoto". Quindi si rivolge a me: "Questo lo metta nel pezzo eh. Comunque non disperi, non escludo che alla prima occasione io possa recuperarla".
Hahah va bene Piero, lo scrivo che sono un fallito. Comunque, vorrei ora parlare con lei della parentesi con Boncompagni. Nel 1995 ho 20 anni e diciamo che non sono un campione di carisma e popolarità ma per fortuna su Italia 1 c’è “Non E’ La Rai”, quindi come milioni di adolescenti finita la scuola torno a casa di corsa e mi incollo al televisore abbandonandomi a sperticate fantasie sessuali con le varie protagoniste. Sono gli anni di Ambra alla conduzione che, leggenda vuole, pare sia teleguidata attraverso una cuffia dal big boss in persona, Gianni Boncompagni. Lei, appostato in un furgone fuori dagli Studi Palatino di Roma, intercetterà, grazie a un team di incursori fornitogli da “la Scuola Radioelettra di Torino” le comunicazioni tra Ambra e Boncompagni dimostrando quindi che quella non era una leggenda. Quando vidi il servizio (mi sembra fosse nel programma “Il Laureato”) pensai che nella leggenda ci era appena entrato lei. E dopo nel 2001, fa “Chiambretti C’è”, programma suo e di Boncompagni.
Beh, il ruolo della “donna televisiva” io l’ho scoperto con lui. Prima di lui avevo nei miei programmi solo anziane, vedove, suore. Con lui il mio innamoramento per le donne televisive, belle ma anche brutte, divenne esponenziale. Fu il primo programma che, per volontà di Boncompagni stesso, aveva nel titolo il mio cognome. Ho sempre detto che ho avuto dei grandi maestri, degli ispiratori: l’ispirazione televisiva me la diede Nanni Loy e il primo Paolo Villaggio, quello appunto televisivo; l’ispirazione lavorativa, nel senso di prassi, me la fornì Boncompagni per la composizione delle immagini e per l’uso della donna in tv e Guglielmi per la sua libertà di pensiero. Questa è la mia formazione. Il resto, come dice Costanzo, è vita.
Il futuro della tv è nel suo passato. Dobbiamo continuamente raccogliere immagini, ricordi e modelli di quando la televisione era LA televisione
Per alcuni lei pecca di autoreferenzialità…
Bene! È giusto! Se te lo puoi permettere fallo, se non puoi permettertelo fallo lo stesso, perchè è ancora più interessante scoprire chi sei, il tuo mondo. Oggi del resto non è più un’idea così provocatoria: grazie ai social tutti hanno ben più dei quindici minuti di celebrità che teorizzava Warhol…
Qual’è la cosa più brutta che dicono di lei?
La cosa più bassa che mi faceva male, ma che ormai ho superato, è dirmi che faccio sempre lo stesso programma. Invece ogni programma è diverso anche se nasce dalle ceneri del precedente, come una catena di Sant’Antonio. Quello si chiama “marchio di fabbrica”, “griffe”. Ho insistito io per averla all’inizio di ogni mio show, per poter essere da subito riconoscibile fra i mille canali di ogni smart tv. Chi mi dice che faccio sempre lo stesso programma dice una grandissima puttanata.
Lei è nato professionalmente in radio. Il passaggio alla tv come avvenne? Leggenda vuole che si fosse presentato al provino Rai in mutande.
E’ cosi. Facevo radio a Torino assieme al mio amico Arturo Villone, che continuava a ripetermi che avevo del talento. Io pensavo che lo vedeva solo lui, ma volevo credergli. Quando Villone vede un annuncio in tv nel quale la Rai indice un concorso (“Un Volto Per Gli Anni ’80”, nda) alla ricerca di volti nuovi insiste perchè io vada alla sede Rai di Via Verdi a Torino. Un pò per stupire, un pò perchè non avevo nulla da perdere mi presentai al cospetto dei grandi professori della Rai in mutande, maglietta e con un cappello con un’elica in testa. Se ci penso oggi me ne vergogno, ma allora avevo 32 anni e ne dimostravo 16. Quindi resto così, in mutande, davanti a grandi professori della Rai, tra loro Guido Sacerdote e Bruno Voglino, dicendo: “Scusate, ho portato anche il pianoforte, ma è rimasto incastrato in ascensore”. Poi mi hanno condotto in una stanza, c’era solo una telecamera, dicendomi: “Prego, fai quello che sai fare”. Io però non sapevo fare nulla. Quindi inscenai, in minuti sette, un grande varietà televisivo, facendo tutto da solo. I “momenti” di scaletta erano intervallati da una specie di pernacchia, tipo voltapagina: “Buonasera e benvenuti a questa grande serata di beneficienza il cui ricavato servirà all’acquisto di un biglietto di sola andata per Gianfranco Funari verso un’isola deserta - prrrr! - ma ora è il momento del balletto di Raffaella Carrà! -prrrr! - benissimo, il balletto è andato e adesso è il momento di far entrare un toro e farlo inculare da un marinaio che non vede una donna e tantomento un toro da 10 anni - prrrr!. Dopo 6 minuti di questi prrrr Entra Voglino, rosso dalle risate, dicendo “continua!”. Dopo qualche mese mi arriva una lettera dicendo che sono stato scelto per le finali a Roma e lì tiro fuori il mio vecchio repertorio di quando facevo l’animatore sulle navi. Li lasciai inebetiti. Mi arrivò, qualche tempo dopo un foglietto della RAI con su scritto “Congratulazioni! Dei 9mila partecipanti al concorso lei è uno dei cinque vincitori!”. Gli altri nomi che ricordo erano Cecchi Paone, Enzo Iacchetti, forse c’era Fabio Fazio… Non mi chiamò mai nessuno, però cominciai a fare le mie cose con rinnovata fiducia nelle mie capacità. Anni dopo mi chiamarono per sostituire un valletto alla Tv Dei Ragazzi! Andai lì pensando che il merito fosse stato del concorso, ma nessuno ne sapeva nulla.
Le confesso che non avrei mai pensato che sarebbe tornato in tv tanto presto, dato il suo lutto, che capisco benissimo perché stato molto simile al mio.
Pensavo proprio di non tornare mai più. Ero morto anche io. Poi è successo qualcosa di inspiegabile, quasi sovrannaturale. Io credo di aver avuto da mia madre “il tocco di grazia” per ripartire nell’unico modo possibile: tagliando con il passato. La Repubblica delle Donne è stato l’ultimo programma che mia madre ha visto, che ha criticato, del quale ha preso parte. Cosa posso fare, mi chiedevo, per uscire dal questo periodo nero? Devo fare qualcosa che con cui non senta la sua mancanza: e il calcio è proprio qualcosa che con lei non aveva niente a che vedere. E a luglio mi arriva la chiamata di Piersilvio che si sveglia una mattina con l’idea di farmi condurre Tiki Taka (programma che era ormai definitivamente chiuso dopo Pardo, nda). Incredibile no? E tutti i problemi e le avversità che ho avuto su questo programma da luglio ad oggi, sento di esser riuscito a superarli grazie a mia madre, lo sento dentro, è come se questo programma lo firmassimo in due.
Piero, domandona finale. Come sarà il futuro della tv?
Il futuro della tv è nel suo passato. Dobbiamo continuamente raccogliere immagini, ricordi e modelli di quando la televisione era LA televisione. E’ una bella risposta, vero?
Bellissima capo.