Premetto: a me, di Beatrice Venezi, non potrebbe importarmene di meno. E così del sovrintendente del Teatro La Fenice di Venezia, Nicola Colabianchi. Anzi, vi dirò: confrontarsi con l’orchestra prima della nomina di un direttore musicale è una consuetudine, non un obbligo di legge; non confrontandosi con l’orchestra (perché lo hanno obbligato, perché è più realista del Re, non mi importa) ha messo gli orchestrali nella posizione di fargli questo bordellone. E forse se lo merita, perché noi, che abbiamo fatto il militare a Cuneo, sappiamo come vanno gestite queste cose: si fa una bella riunione con gli orchestrali, si mette sul tavolo la nomina, gli orchestrali rompono le balluzze, e il sovrintendente dice: “Vi ho ascoltati, adesso si fa come dico io”, come prevede la legge. Avere saltato questo passaggio è stata una sua disattenzione, o non è stata “sua” e allora sarebbe bello sapere chi gli ha messo fretta (che poi è la causa di quanto sta succedendo). In ogni caso l’orchestra ha un po’ rotto i cabbasisi, non a me, non al pubblico: ha rotto i cabbasisi alle giuste rivendicazioni. Perché, e bisogna dirlo, anche questa protesta, un po’ sindacale, un po’ politica, un po’ musicale, è diventata una performance, e le performance annoiano.
La notizia è: all’orchestra del Teatro La Fenice non è stato permesso di leggere, prima del concerto, il solito comunicato contro la nomina di Beatrice Venezi a direttrice musicale. E apriti cielo. “Censura!”, “Bavaglio!”, “Attacco alla democrazia!”. Che due palle, sembrate un po’ Carlotta Vagnoli, ma meno carini. Poi, in mezzo a questo pandemonio di nobili indignazioni, arriva una voce sensata: quella di Tiziana Tentoni, una professionista del settore, che dice semplicemente “anche basta” e scrive sui suoi social:”Dopo più di un mese di proteste che non hanno portato a niente – semplicemente perché si tratta di una norma, non di una decisione revocabile – anche basta”. Traduzione: se protesti contro un regolamento, non contro un abuso, stai solo sprecando fiato. Ecco, serviva qualcuno che lo dicesse. Perché ormai ogni categoria, ogni assemblea, ogni gruppo di WhatsApp si crede l’ultimo bastione della Resistenza.
Alla Fenice, invece di suonare, si leggono comunicati. Poi, quando la direzione ha detto “adesso basta, si suona e stop”, i musicisti si sono imbavagliati. Letteralmente: imbavagliati, coi volantini in mano.
Ora, siamo d’accordo che l’immagine è forte. Ma anche un po’ troppo teatrale, e non nel senso buono.
Il rischio è che la protesta diventi uno spettacolo nello spettacolo. E quando il pubblico comincia a comprare biglietti per assistere non a una esecuzione (mi piace questo termine, “esecuzione”, sa di ghigliottina) ma alla conferenza stampa dell’orchestra, vuol dire che qualcosa è sfuggito di mano.
Scrive Tentoni: “Il pubblico continua ancora a sostenere, anche se sempre meno. Ma alla fine si tratta quasi sempre di un like o di una foto”. Ecco, la grande rottura di balle del nostro tempo: la solidarietà a tempo di scroll. Si mette un cuore su Instagram e si crede di aver partecipato a una sommossa. Solo che, alla lunga, anche i like si stancano. E la protesta che non cambia nulla finisce per consumare chi la fa. E qui la Tentoni dice una grande verità: “Una protesta così lunga, che non ha sbocchi reali, finisce solo per logorare chi la porta avanti e per indebolire la categoria”.
Già. È la versione sindacale della sindrome da talk show: gridare, ribadire, indignarsi — purché si resti in onda.
Nel frattempo, la nomina resta. La direttrice resta. E gli orchestrali sono contenti di pensare di essere eroi della Resistenza (ciao core). Il fatto è che alla Fenice non siamo davanti a una decisione scandalosa, ma a un passaggio previsto dallo statuto: la nomina del direttore musicale spetta al sovrintendente. Punto. E di nomine scandalose, nell’omertà generale ne sono state fatte, uh se ne sono state fatte. Non serve un mese di volantinaggi per scoprire che il regolamento del teatro non è un sondaggio di Instagram. Se in ogni teatro italiano si aprisse lo spettacolo con un comizio, dovremmo chiamare i concerti “assemblee con accompagnamento orchestrale”.
Ma il dramma vero è che nessuno ha più il coraggio di dire “questa protesta non funziona”. Perché dire così sembra un tradimento. Invece no. A volte è proprio il contrario. A volte dire “basta” è un atto di igiene mentale.
Tentoni non difende la direzione, difende la lucidità. Difende il diritto di non sprecare energie in battaglie simboliche che servono solo a tenere viva la rabbia e la vanità degli orchestrali. Ai quali bisognerebbe chiedere: ma se siete così geniali musicalmente e professoroni e fuochi d’artificio di competenza e talento, perché fate gli orchestrali? (Ora si arrabbiano, e si vola). E intanto, nel teatrino mediatico, si moltiplicano i ruoli: i musicisti in trincea, i giornalisti indignati, gli influencer col post “solidale”, e il pubblico che guarda tutto come una puntata di un Docudrama; la protesta diventa storytelling, e lo storytelling si sostituisce alla realtà.
Sotto c’è un tema serio: l’autolesionismo collettivo delle categorie artistiche. Ogni volta che si spara una protesta a vuoto, si brucia credibilità. La prossima volta che ci sarà davvero da combattere chi ascolterà? Vi ascolteranno i politici per i quali state facendo questa battaglia a vuoto? O i giornaloni che stanno per essere venduti a un greco di Destra? Mi sa che neanche voi avete fatto il militare a Cuneo. Quando si protesta sempre, la protesta smette di fare rumore.
Il punto non è se Beatrice Venezi piaccia o meno. Il punto è che l’orchestra di uno dei teatri più importanti d’Italia sta sprecando capitale simbolico per una guerra di posizione che non può vincere. Alla fine resteranno due cose: la nomina, e la stanchezza. Perché le proteste, quando si trasformano in routine, non fanno più paura a nessuno. Diventano come il traffico: tutti lo subiscono, nessuno lo ascolta. E il problema vero della Fenice è il “ciaffico” (citazione da?). A Destra non sono bravi a farsi valere, a Sinistra non sono bravi a opporsi. Che noia.