Mick cammina in punta di piedi, da sempre. Lo faceva nelle Formula minori, quando al posto di presentarsi con quel cognome - quello da divinità delle quattro ruote - preferiva usare il nome di mamma.
Lo fa ancora, dolce ma guardingo, in giro per il paddock di Formula 2. D’altronde se hai un cognome così, come quello di Mick, le opzioni per sopravvivere alla giungla sono due: o lo usi come uno scudo, o gli fai da scudo. E credo che lui abbia sempre preferito la seconda. Anche oggi, il giorno del tanto chiacchierato annuncio ufficiale, anche adesso che sappiamo con certezza che correrà in Formula 1, lui continua a camminare in punta di piedi.
Tutti parlano di lui, della sua carriera, si chiedono se il padre possa o non possa rendersi conto di quello che sta facendo il figlio. Intanto si fanno analisi sulle caratteristiche del ragazzo e ci si chiede se quel talento, quello di Michael, sia replicabile. Genetico, intrinseco, stampato dentro a un cognome, marca da bollo della propria esistenza.
E oggi è scritto a caratteri cubitali su tutti i giornali del mondo: Schumacher.
Gigantesco da pronunciare, denso come il caramello. Può un cognome suonare arrogante? Beh, se potesse, sarebbe sicuramente questo.
Uno Schumacher che torna in Formula 1. Nel nome del padre. Mick figlio di Michael, così biblico, nella sua solennità.
Una notizia già ampiamente annunciata ma dal frastuono spaventoso. Allora Mick che fa? Se ne sta in punta di piedi. A fare i conti con papà, lui che in punta di piedi non c’ha mai saputo camminare. Devi guardarli esultare, questi due, per capire che sono davvero imparentati. Lo fanno nello stesso modo: braccia alzate, dito al cielo, pugno chiuso. Nella gioia sono uguali, gli Schumacher.
Ma nella sensibilità mediatica di Mick, nella sua attenzione a non dire e non fare quello che ci si aspetterebbe, nel suo tentativo di non essere personaggio, c’è tutto quello che dobbiamo sapere di lui. L’essere cresciuto in fretta, nato nel mondo del motorsport e venuto su a pane e quattro ruote, l’estremo rapporto con la propria privacy, la capacità di mantenere un velo di riservatezza assoluto sulle condizioni di un uomo che per tutti, soprattutto per lui, era (e rimane) un supereroe.
A casa ho una sua fotografia autografata, del Kaiser. È un regalo che conservo come un gioiello, l’oggetto a cui tengo di più. Mi ricorda che nella vita si può essere i migliori - in tutto quello che si fa - se si ha sufficiente talento, passione e dedizione. Non è questione di Formula 1, è questione di imparare a vivere. Incazzarsi, piangere senza vergogna, vincere senza dover chiedere scusa.
Lo vorrei dire a Mick, quanto ci tengo a quel ricordo del suo papà, e vorrei scusarmi perché oggi - anche a me - viene da pensare a lui. Io che da anni sono paladina del “non fate inutili confronti” oggi non posso che pensare all’emozione di rivedere quel cognome in Formula 1. A quanto ci piacerebbe avere Michael nel box Haas, a guardare le spalle del figlio, col solito sorriso saccente.
Ma Mick lo sa, lo sapeva prima di noi. Prima dell’annuncio di oggi e della scalata di quest’anno verso la Formula 1. Sa quanto questo giorno, e questo cognome, siano importanti per tutti. Allora non gli resta che continuare a camminare in punta di piedi, ma marciando chilometri, con la costanza che lo contraddistingue e la determinazione, passaporto del suo DNA.
Diverso da papà, ma con quel nome scritto dentro a caratteri cubitali. Gigantesco, impossibile da sillabare. Schumacher, Mick.
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